Hailè è un eritreo che vive in Italia da tanti anni. “Sono arrivato nell’ottobre del 1982 con una borsa di studio perché in Eritrea avevo frequentato le scuole italiane”. Hailè però non è il suo vero nome. Ci ha chiesto massimo riserbo, una precauzione necessaria perché teme ritorsioni nei confronti dei suoi familiari che sono rimasti in patria. Non sarebbe la prima volta che accadono cosa spiacevoli di questo tipo. Anche il contatto con lui avviene in un ambiente protetto. In più Hailè è uno dei fortunati, non è di quelli arrivati da noi con le bare del mare. Ha potuto completare gli studi laureandosi in Scienze politiche in un ateneo del Nord, e attualmente svolge un lavoro di tipo impiegatizio presso una grossa multinazionale. Ha sposato una compaesana giunta in Italia agli inizi degli anni Novanta dalla quale ha avuto una bella bambina che oggi ha 9 anni. L’estate scorsa, dopo tanti anni Hailè è tornato a casa a trovare i suoi genitori. Dopo la tragedia di Lampedusa lo abbiamo rintracciato per chiedergli di raccontarci cosa ha visto.                      



L’estate scorsa è tornato a casa: cos’ha visto? In che condizioni vive la popolazione? Oggi la situazione generale è molto difficile, sia dal punto di vista economico che da quello politico. Oltre all’embargo che sta penalizzando pesantemente la nazione, nel Paese manca regolarmente l’energia elettrica, manca l’acqua e i beni di prima necessità hanno raggiunto prezzi stratosferici per quello che sono gli stipendi locali.



È vero che ogni settimana sono centinaia le persone, soprattutto giovani, che scappano dall’Eritrea? Purtroppo è così. Ormai è diventato normale che la gente fugga verso il Sudan o verso il confine etiopico    

Le difficoltà proseguono anche sul versante politico? C’è sempre l’atteggiamento dittatoriale di un regime che dopo tanti anni di guerra si sperava fosse diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto. Invece ha deluso enormemente le aspettative della popolazione. Questo atteggiamento ha poi avuto anche conseguenze drammatiche sul versante economico.

La gente scappa anche per questo. La gente scappa per disperazione, perché non vede un futuro per i propri figli. Oggi si sta verificando una cosa che in passato non accadeva.



Cosa? Adesso sono i genitori a spingere i figli ad andarsene. Nella speranza che almeno loro abbiano un futuro più sereno, con meno rischi. C’è poi il problema della militarizzazione coatta che fa sì che un giovane entri in servizio senza sapere quando sarà dimesso.

Nessuno si ricrede neanche di fronte a tragedie come quella di Lampedusa? No, perché alla fine uno dice: sì, è successo, però a me forse andrà meglio. A me potrebbe andare bene. Non è che uno perde la speranza perché capitano tragedie come quella di Lampedusa. La disperazione fa sì che uno pensi così: è andata male a lui ma per me darà diverso. Tutto questo purtroppo non finirà finché non cambierà qualcosa laggiù.

Lei cos’ha provato di fronte a quella tragedia? Ho provato rabbia. Più che altro perché penso che tragedie simili si potrebbero evitare. Perché sono dovute semplicemente alla testardaggine di un individuo che nessuno sa dove vuole portarci, nessuno sa quali siano i suoi progetti, sempre che ne abbia. E cosa voglia fare in futuro di una nazione che è fatta prevalentemente di giovani. È un punto interrogativo che tutti i miei connazionali credo si stanno ponendo.

Come ha trovato i suoi genitori? Bene o male siamo fortunati perché la maggior parte di noi figli vive fuori dal paese e possiamo dare una mano economicamente.                 

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