Caro Direttore,
Passano le settimane e ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da scoprire. Oggi, con suor Costancia, tanzaniana, missionaria qui con suor Bruna e Gilia Pia, sono stata alla messa nel carcere femminile. Lo stanzone aveva le pareti annerite, ma l’altare era preparato bene; le donne indossavano i vestiti della festa e c’erano anche dei bambini con le loro mamme. Fuori si vedevano altre donne passare con la legna per far da mangiare. I canti erano accompagnati dal tamburo; non capivo le parole in kirundi, ma la messa è sempre la stessa offerta e mi commoveva pensare di essere lì.
Nel pomeriggio ho incontrato quattro burundesi di Comunione e liberazione: Gerard, Seraphine, Nadine, Godfroi. Abbiamo letto un pezzo dell’incontro dei movimenti col Papa. Gerard era appena tornato dall’Italia pieno di stupore per le cose viste, per l’accoglienza ricevuta e con tanta voglia di scoprire assieme ai suoi amici il senso della vita. In Italia ha incontrato anche Carron alla scuola di comunità. Ha cercato tra i suoi appunti quello che lo aveva colpito quando era stato in Uganda e ci ha detto: “Come si fa a non andare avanti con questi amici!”.
Sono stata a visitare l’ospedale di Kirundo, che si trova a circa 40 km da qui, dove Francesco, il fisioterapista, aveva lavorato da giovane per tre anni. La missione è stata voluta dalla diocesi di Brescia quando Paolo VI è stato eletto Papa. Lì, due anni fa, hanno ammazzato una suora italiana e un volontario. Le suore, che avevano lasciato il posto, adesso ritorneranno. L’ospedale è molto bello, sembra un monastero con tanti chiostri; solo vedendo donne e bambini bendati e amputati si capisce che è un ospedale. Alla missione c’è un sacerdote anziano di Novara, don Carlo, che ha 88 anni e da 40 è in Burundi. Avevo chiesto alle suore come facevano per la confessione e mi avevano parlato di questo sacerdote italiano. Allora ho approfittato. Quando l’ho incontrato gli ho chiesto se potevo confessarmi; lui non capiva, ha detto anche che era un po’ sordo, poi durante la confessione capiva tutto. Ho pensato che l’ultima cosa che si aspettava era che un medico volontario (ne hanno visti talmente tanti) chiedesse di confessarsi. Mi ha colpito molto. Continuava a dirmi: “A questa gente bisogna voler bene. Si fa fatica a capire cosa pensano, bisogna solo voler bene”. Gli ho chiesto se era lì quando hanno ammazzato la suora. Ha detto che ne ha viste anche di peggio, quando ci sono state le varie guerre, nel ‘72, nell’83 e soprattutto nel ‘93. Lui stesso ha uno zigomo deformato per colpa di una pallottola che miracolosamente l’ha solo trapassato. Tutti i giorni passa a trovare i malati in ospedale e dice per loro la messa ogni pomeriggio. Mi porto nel cuore questi esempi perché aiutano a ricordare perché sono qui.
Anche le nostre suore stupiscono sempre. Si prendono cura di chi rimane orfano quando la mamma muore di parto, si occupano delle persone che sono al pronto soccorso da due giorni e portano loro da mangiare. A me verrebbe da dire che bisogna organizzare meglio il servizio, che bisogna migliorare l’assistenza al parto, ma loro superano tutto con la carità.
Questa settimana ho trascorso molto tempo in neonatologia. Una memoria continua dell’impotenza dell’uomo. Ma prima di tutto, assieme agli strumenti che mancano, al personale e a tutto il resto, arrivano neonati partoriti qui da noi in ospedale o nei vari centri sanitari, a casa o per la strada che pesano 1.000 – 1.500 gr. Sembrano dei piccoli carcerati. Con i vestitini fatti dalle suore, che a furia di lavarli sono diventati tutti dello stesso color terra. Tante volte, con ossigeno e flebo (i grandi strumenti che abbiamo) non si combina molto… per fortuna c’è in abbondanza il latte di mamma. Anche questa settimana ne abbiamo battezzati due: Maria e Giuseppe. Ci sono ancora. Di notte mi è capitato di svegliarmi e mettermi a pregare; pensavo a loro e mi chiedevo se si poteva fare qualcosa di più o di diverso. Ho pensato a Elvira Parravicini e alla sua confort care. Certo non siamo alla Columbia di NY, ma vedendo la piccola Maria che piangeva, l’ho tirata fuori dall’incubatrice e l’ho presa in braccio, sempre con l’ossigeno. Si è calmata subito e ossigenava meglio. Poi è arrivata la mamma, abbiamo messo una sedia vicino all’incubatrice e l’abbiamo fatta accomodare con la piccola in braccio. Chissà se fa più l’amore di mamma o la bombola di ossigeno … Ho pensato che se non riuscivamo a fare di meglio, poteva almeno morire contenta.
A casa adesso sono sola. Francesco è partito; mangio assieme alla famiglia e alle due bambine e qualche volta viene Silvia, la fisioterapista spagnola. Oggi abbiamo avuto a pranzo le tre suore. Quindi sono sempre in buona compagnia.
Sono stata due volte al corso per infermieri a vedere cosa fanno e ho partecipato al corso pratico su “Come somministrare i farmaci”. C’era uno studente che lavora già come infermiere non qualificato, che spiegava che dopo aver somministrato lo sciroppo al bambino lo devi prendere per le braccia e scuoterlo, così la medicina va giù. Ho preso coscienza che ci sono un po’ di cose da correggere.
Credo proprio che ogni giorno mi è dato di toccare la carne di Cristo e sono grata della possibilità di non dimenticare Colui che sempre mi precede e ancora mi vuole.
Ancora due settimane. L’ultima arriverà il prof e faremo il punto della situazione.
(Chiara Mezzalira)