La situazione in Medio Oriente, la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi, ma anche la perdurante gravità del conflitto siriano. Sono solo alcuni dei temi affrontati durante il colloquio avvenuto di recente in Vaticano tra papa Francesco e il presidente dello Stato di Palestina, Abu Mazen. I due, incontratisi nella Sala della Biblioteca alla sola presenza di un interprete, hanno espresso in particolare l’auspicio che il processo di pace tra israeliani e palestinesi possa produrre “i frutti desiderati per trovare una soluzione giusta e duratura ad un conflitto la cui fine si rivela sempre più necessaria e urgente”. A tale scopo, ci si è augurati che “le Parti prendano con determinazione decisioni coraggiose a favore della pace con il sostegno della comunità internazionale”. Grave preoccupazione continua invece a destare la situazione in Siria, per la quale papa Bergoglio e Abu Mazen sperano “che alla logica della violenza subentri quanto prima quella del dialogo e della riconciliazione”. Si è parlato infine della situazione delle comunità cristiane nei territori palestinesi e, più in generale, in Medio Oriente, rilevando “il contributo significativo che esse offrono al bene comune della società”. Abbiamo commentato il colloquio e quanto ne è emerso insieme a William Shomali, vescovo ausiliare e vicario patriarcale di Gerusalemme.



Mons. Shomali, qual è l’importanza dell’incontro tra il Pontefice e il presidente palestinese?

Per diventare una nazione riconosciuta e uno Stato membro delle Nazioni Unite, la Palestina ha bisogno di un appoggio, come quello della Santa Sede, dal grande valore morale. I palestinesi apprezzano molto il fatto che in questi casi venga utilizzata l’espressione “Stato della Palestina” e non “autonomia” o “autorità nazionale palestinese”. Non dimentichiamo poi che in Terra Santa c’è una piccola comunità cristiana che è molto rispettata, quindi Abu Mazen, che è il presidente di tutti, musulmani e cristiani, ha sentito il dovere di rivolgere un saluto al capo di questa comunità che si trova attorno ai Luoghi Santi.



Cosa può dirci dell’attuale rapporto tra israeliani e palestinesi?

Purtroppo i negoziati al momento sono bloccati, soprattutto perché non sembra possibile raggiungere un’intesa sui punti principali, come i cosiddetti territori occupati (in particolare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, regioni rivendicate sotto il nome di Stato di Palestina, come riconosciuto dall’Onu nel novembre 2012, ndr).

C’è poi il cosiddetto “muro di separazione” costruito da Israele in Cisgiordania…

Esatto, un muro che Israele vuole mantenere e che i palestinesi invece non accettano. Al momento, il maggiore problema è rappresentato proprio dal muro e dalla futura frontiera tra Palestina e Israele, senza dimenticare poi altre questioni come il ritorno dei profughi e quella legata a Gerusalemme, in particolare alla Città Vecchia: a chi appartiene? (Israele reclama l’egemonia totale, i palestinesi rivendicano il rispetto dei confini, ndr).



Crede che la Santa Sede possa avere un ruolo diplomatico nel rapporto tra israeliani e palestinesi? 

Un ruolo diretto non penso, perché generalmente la Santa Sede non interviene in questioni politiche come queste. Il suo atteggiamento è però sempre molto utile, specialmente quando si parla di Gerusalemme, una città tre volte santa anche e soprattutto per i cristiani. E’ chiaro allora che una parola del Papa, anche se non inserita direttamente nel negoziato in corso, ha comunque un peso notevole ed è in grado di modificare il corso politico.

 

A margine dell’incontro, parlando con i giornalisti, il presidente Abu Mazen ha riferito di aver invitato il Papa in Terra Santa. Questo incontro potrebbe risultare ancora più importante?

E’ senza dubbio così. La presenza del Papa in Terra Santa ha un impatto mediatico tale da poter amplificare al massimo ogni suo discorso e ogni sua parola. Questa visita potrebbe quindi avere un peso decisamente maggiore rispetto a quello dell’incontro dei giorni scorsi in Vaticano.

 

Nel corso del colloquio si è parlato anche della situazione delle comunità cristiane. Qual è l’attuale loro contributo nei territori palestinesi?

Il contributo dei cristiani è polivalente. Ci sono tante scuole di ottimo livello, due università in Giordania e Palestina, ma anche dodici ospedali cattolici in tutta la Terra Santa. Molti palestinesi sono inoltre impegnati in politica, nell’economia e nella diplomazia, quindi la comunità cristiana ha un evidente influsso positivo, soprattutto nella zona di Betlemme. Anche il presidente Abu Mazen, durante l’incontro con Papa Francesco, ha riconosciuto la ricchezza del pluralismo in Terra Santa e confermato quanto la comunità cristiana, attualmente al 2%, sia accettata e gradita.

 

Dopo aver assistito alla giornata di digiuno e preghiera per la pace, voluta da Papa Francesco, crede che l’autorevolezza del Pontefice possa avere anche nel caso della Terra Santa conseguenze politiche?

 Il Papa ha invitato milioni di cristiani e di non cristiani a pregare per la pace perché ha autorità morale e spirituale, ma vorrei ricordare che l’attacco contro la Siria alla fine non è avvenuto. Questo significa chiaramente che la sua preghiera può produrre effetti anche a livello politico.

 

(Claudio Perlini)

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