“A pochi mesi dalla sua morte mi incontrai con Muammar Gheddafi per intervistarlo e il Colonnello previde tutto quello che sarebbe successo. La sua fine, il dilagare di Al Qaeda e lo sprofondare del Paese nel caos”. Fausto Biloslavo, insieme a Oriana Fallaci ed Enzo Biagi, è uno dei pochissimi giornalisti italiani ad avere intervistato Gheddafi. Il 26 ottobre la Libia festeggerà il secondo anniversario della dichiarazione di “liberazione”, ma di fatto è una nazione che non esiste più. Scorribande, brigantaggio e terrorismo hanno sostituito le istituzioni, e oggi il Paese si è disintegrato in quattro entità autonome: la Tripolitania a ovest, la Cirenaica a est, l’arretrato Fezzan nel sud e Misurata che è sempre più una “città-Stato”.



Biloslavo, che cosa è cambiato in Libia a due anni dalla “liberazione”?

Lo Stato libico di fatto non esiste più. Basta vedere quello che è accaduto al primo ministro, Ali Zeidan, che è stato arrestato, più che sequestrato, da miliziani governativi. Dietro di loro c’erano i Fratelli musulmani e il presidente del Parlamento, il berbero Nouri Abusahmain, che volevano costringere Zeidan alle dimissioni. In un Paese normale sono deputati e senatori a decidere la sfiducia, e non invece le milizie. Ciò riflette il controllo che i guerriglieri esercitano sul Paese, nonché la situazione economica in cui versa. Basti pensare che ai tempi di Gheddafi la Libia produceva un milione e 600mila barili di petrolio al giorno, mentre oggi è scesa a 600/700mila barili.



Quali sono gli errori commessi da Stati Uniti e Paesi europei?

Gli stessi commessi nei confronti dell’intera Primavera araba: hanno creduto che l’ondata di sollevazioni fosse di per sé sufficiente a portare democrazia. Non hanno però calcolato che la democrazia non si esporta come se fosse la Coca Cola, ma che richiede tempo e un’evoluzione storica che non si produce semplicemente perché si verifica una rivolta armata. A dimostrarlo è l’esempio della Libia, ma anche di altri Paesi coinvolti in questa Primavera che ormai è autunno/inverno. L’Occidente ha quindi commesso un grave errore di cui ora sta pagando le conseguenze.



In che modo?

Ricordiamoci che l’11 settembre 2012 è stato ucciso l’ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens, che aveva aiutato i ribelli durante la guerra contro Gheddafi e che considerava Bengasi come la sua seconda casa. Poche settimane fa inoltre è stato catturato un super-terrorista, Nazih Abdul-Hamed al-Ruqai, che viveva tranquillamente a Tripoli pur essendo stato responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998. Si tratta soltanto della punta dell’iceberg della realtà della Libia.

 

A esserne compromessa è la stessa unità nazionale?

Sì, il Paese è spaccato. Misurata è una città autonoma, la Tripolitania è continuamente agitata da scioperi anche delle stesse forze governative contro il governo considerato corrotto. La conseguenza è quella di bloccare i porti e impedire le esportazioni di gas e petrolio destinate alla stessa Italia tramite l’oleodotto Greenstream. La Cirenaica nel frattempo è a un passo dalla secessione e ospita gruppi terroristici filo Al Qaeda molto pericolosi. Il Fezzan, la regione più povera a sud, è stata dichiarata indipendente dalle tribù che vi abitano. La Libia rischia quindi di andare completamente persa, a meno che vi sia un’azione di peace building e di ricostruzione politica e sociale del Paese.

 

In che modo è possibile attuare questa ricostruzione?

Non è possibile, in quanto in questo momento nessun intervento straniero è ben visto in Libia. La stessa Italia avrebbe dovuto svolgere il compito di addestrare 5mila reclute del nuovo esercito libico, ma il training delle prime 400 è già stato rimandato per la situazione di caos. I problemi sono enormi e non possono essere risolti, la Libia sta rischiando di trasformarsi in una completa anarchia simile alla Somalia o all’Afghanistan, e questo va contro agli interessi nazionali dell’Italia.

 

Lei intervistò Gheddafi poco prima della sua caduta. La sua impressione fu quella di trovarsi di fronte a uno psicopatico?

No, non lo definirei uno psicopatico, anche se era un personaggio stravagante e a suo modo unico. Quando gli chiesi che cosa ne pensava di Sarkozy, invece di rispondermi si portò l’indice alla tempia per dire che lo riteneva un po’ picchiatello. Gheddafi però aveva già previsto tutto. Nel corso dell’intervista mi anticipò che di lì a poco sarebbe morto, descrisse il caos che sarebbe scoppiato alla sua caduta e il diffondersi di Al Qaeda e degli altri gruppi jihadisti in ampie fette della Libia.

 

(Pietro Vernizzi)