BUENOS AIRES – A cent’anni d’età è morto Erik Priebke, uno degli ultimi criminali nazisti. Non è accaduto nella sua Germania natale, nemmeno nella Patagonia argentina dove pure ha vissuto di nascosto per quasi mezzo secolo, ma a Roma, proprio nel luogo dove la sua partecipazione attiva alla macchina genocida di Hitler gli è costata una tardiva condanna all’ergastolo. Nella città eterna, l’allora tenente delle Waffen-SS, insieme al suo collega il maggiore Karl Hass, mise in pratica un ordine dato dal loro capo, Herbert Kappler, di uccidere dieci italiani per ogni soldato tedesco morto il giorno prima in un attentato con esplosivi operato dalla resistenza partigiana. I poliziotti militari tedeschi assassinati erano 33.

Il 24 marzo del 1944, Kappler redasse la lista dei prigionieri italiani – 75 dei quali ebrei in attesa di essere trasferiti ai campi di sterminio – e annotò 335 nominativi, tutti civili, cinque in più del numero suggerito dal Fuhrer: un atto di chiara obbedienza misto a lealtà, per far intendere non solo che l’ordine era approvato pienamente, ma allo stesso tempo, aumentandone la portata, anche per ingraziarsi il leader. Agli ordini di Priebke e Hass, il comando nazista trasferì gli sfortunati presso una cava abbandonata sulla Via Ardeatina, dove a gruppi di cinque prigionieri alla volta, vennero uccisi con colpi di pistola alla nuca. L’orrendo fatto passò alla storia come il massacro delle Fosse Ardeatine.

Una volta fatto prigioniero dai Britannici a causa della disfatta tedesca, Priebke scappò dal campo di prigionia di Rimini con l’aiuto del Gruppo Odessa e, dotato di documenti falsi, arrivò a Buenos Aires nel 1946, da dove successivamente si trasferì a San Carlos de Bariloche, una ridente cittadina della Regione patagonica dove nessuno poteva essere a conoscenza dei fatti, tanto da tornare ad usare il proprio nome, mantenendo però nascosta la sua identità. Difatti arrivò ad essere un personaggio rispettato dalla cittadinanza sopratutto a causa del suo incarico di direttore dell’Istituto Culturale Tedesco-Argentino, dal quale dipendevano due importanti istituzioni scolastiche.

Allo stesso tempo Priebke era ricercato in Italia dal novembre 1946, dato che nel mese di maggio dello stesso anno era iniziato il processo per il massacro che vide la condanna di Kappler all’ergastolo. A causa della sua contumacia ma sopratutto in vitù della sparizione, il processo a Priebke dovette essere sospeso fino alla sua archiviazione, avvenuta nel febbraio del 1962 per conto del Tribunale Militare di Roma dato che “tutte le indagini operate alla sua localizazzione e identificazione si sono concluse negativamente”.

Come per tanti altri gerarchi nazisti che si erano rifugiati in Brasile, Paraguay, Uruguay e Argentina, Priebke era riuscito a scappare dalla Giustizia anche se solo momentaneamente: infatti il 6 maggio del 1994 una squadra della televisione americana ABC capitanata dal giornalista Sam Donaldson lo intercettò a Bariloche e lo avvicinò mentre passeggiava per le vie cittadine, facendogli domande sul massacro delle Fosse Ardeatine. Donaldson scovò Priebke quasi per caso, dato che in realtà era sulle tracce dell’ex agente delle SS Reinhard Kopps, ricercato per un caso riguardante le deportazioni in Albania durante la guerra, anche lui residente a Bariloche sotto il falso nome di Juan Reinhard Maler.

Nel corso dell’indagine qualcuno rivelò l’identità dell’esecutore del massacro delle Fosse Ardeatine che la giustizia italiana già non cercava da più di vent’anni. Priebke rispose evasivamente alle domande del giornalista, anche se ammise di aver partecipato al fatto e aver ucciso tutt’al più una delle 335 vittime. Tre giorni più tardi arrivò in Patagonia l’ordine internazionale di arresto firmato dal ministro della Giustizia Giovanni Conso: Priebke venne preso e, dopo una lunghissima trafila giudiziaria per l’estradizione degna di un thriller giuridico, l’ufficiale nazista arrivò dopo un anno e mezzo a Roma per essere processato.

Anche in Italia il processo fu pieno di cavilli legislativi che lo rallentarono, fino ad arrivare alla sentenza di ergastolo da compiersi agli arresti domiciliari a causa dell’età avanzata, detenzione che scontò fino alla sua morte, avvenuta lo scorso 11 ottobre.

Il Cancelliere argentino Hector Timerman, che in questi giorni aveva bisogno di una riabilitazione agli occhi della comunità ebraica argentina, attualmente ferita dall’oscuro accordo diplomatico tra l’Argentina e la Repubblica islamica dell’Iran per chiarire le cause e i colpevoli dell’attentato contro l’edificio dell’Associazione Ebraica di Buenos Aires, avvenuto il 18 luglio 1994 che registrò 85 morti e più di 300 feriti, conosciuto come “caso AMIA”, ha rapidamente preso la palla al balzo, negando il trasferimento del cadavere di Priebke in Argentina per essere sepolto, come da lui richiesto (secondo il suo avvocato difensore Paolo Giacchini), accanto a sua moglie a Bariloche. “Gli argentini non possono accettare questo tipo di sfida alla dignità umana”, si legge nel comunicato della Cancelleria governata da Timerman.

Contemporaneamente a ciò si conosceva un altro comunicato, dove anche la città natale di Priebke, Hennigsdorf, negava il suo suolo alla sepoltura: non rimaneva altra possibilità che sepellirlo a Roma, nonostante il rifiuto sia del presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, e l’astio manifestato dal sindaco Ignazio Marino, che ha negato il funerale e qualsiasi altra manifestazione pubblica. Lo scomparso gerarca ha lasciato anche un testamento politico, diffuso dal suo avvocato e amico Giacchini, nel quale, oltre a negare qualsiasi pentimento riguardo al massacro delle Fosse Ardeatine, ha sostenuto come l’olocausto possa inquadrarsi in una manovra propagandistica nordamericana, negando l’esistenza dei campi di sterminio e delle camere a gas. 

La polemica scatenatasi intorno alla sepoltura di Priebke pone alcuni quesiti: è giusto negare la sepoltura ad un genocida? L’azione dei tribunali è sufficiente a soddisfare l’esigenza di giustizia della società ed a impedire il generarsi di nuovi crimini? A Priebke, che come tanti altri genocidi in ogni parte del mondo e in ogni epoca si comportarono da signori della vita e della morte, scegliendo fosse comuni per le proprie vittime, la nazione da lui scelta nella fuga nega la possibilità della sua tomba, per ironia del destino.

Lo storico torinese Giovanni De Luna ha dichiarato in questi giorni che “i cimiteri sono luoghi della memoria di una comunità, e Priebke si è volontariamente tenuto al di fuori di quella di Roma, pertanto è giusto che venga seppellito in altro luogo”, pur accettando che “Priebke deve avere una sepoltura, a differenza dei nazisti e di tanti regimi dittatoriali che la negavano e hanno creato fosse comuni, però la richiesta della comunità ebrea romana è giusta… i cimiteri sono una cosa seria, non costituiscono un mero deposito di morti, sono il deposito dei valori e delle radici di una comunità… è li che si trova la sua identità. Dobbiamo superare anche il concetto che il cimitero acattolico, che accoglie la sepoltura di tutte le religioni, coincida con la loro perdita: anche i cimiteri laici hanno i loro precisi valori”.

La morte come limite e mistero umano dovrebbe costituire la linea di frontiera dei nostri appetiti giustizialisti. E’ chiaro che una tardiva condanna come quella di Priebke, che ha praticamente goduto di una immeritata libertà, contenga l’amaro sapore di una giustizia insoddisfatta: c’è ancora molto da lavorare in materia di efficacia giuridica per realizzare la duplice esigenza di processi giusti e opportuni, però il desiderio di giustizia che si cela nel cuore dell’uomo è infinito, non c’è sentenza, anche la più dura, che possa soddisfarlo, nè che possa rimediare alle perdite causate dai delitti. Sebbene la giustizia terrena rispecchi la soglia da raggiungere con il suo nobile dovere di condannare le condotte criminali, la sua funzione educativa è relativa. La sanzione penale è qualcosa di ineludibile nella riparazione dei delitti, però non li cancella.

Se il chiarimento dei fatti non riesce a recidere l’origine aberrante dei crimini, a capire perché l’uomo è capace di arrivare a compiere tanti delitti, il passato può sempre ritornare. Solamente una vera educazione incentrata sul significato profondo della esistenza umana, della dignità personale e delle esigenze che costituiscono il cuore di tutti gli uomini, in altre parole, il loro essere religiosi può impedire che l’uomo sia il lupo di se stesso o che torni ad esserlo. E, morto il criminale, non ci sono ragioni per limitare la sua apparizione davanti ad un tribunale nel quale non siamo né denuncianti, né difensori né giudici.