«Il braccio di ferro al Congresso sullo shutdown e sull’innalzamento del tetto del debito fa esplodere le contraddizioni delle risposte date dall’America alla crisi. Le immissioni di liquidità da 85 miliardi di dollari ogni mese volute dalla Fed hanno tenuto alti gli asset finanziari in Borsa, senza incidere realmente sull’economia reale e sull’occupazione». Ad affermarlo è Oscar Giannino, giornalista esperto di temi economici e finanziari, a proposito dello scontro in atto tra Democratici e Repubblicani. Per il segretario al Tesoro, Lack Law, il mancato innalzamento del tetto del debito “congelerebbe i mercati finanziari, farebbe precipitare il valore del dollaro, innalzerebbe a razzo i tassi di interesse e contagerebbe il resto del mondo, determinando una crisi finanziaria e una recessione come quella del 2008, o anche peggio”.
Giannino, davvero rischiamo una nuova crisi come quella del 2008?
Per rispondere a questa domanda va innanzitutto spiegata qual è la vera posta in gioco dello scontro tra Democratici e Repubblicani. Dietro la mancata approvazione in Congresso dell’autorizzazione di spesa temporanea c’è uno scontro tutto politico. Una parte dei Congressmen repubblicani ha impostato la trattativa con la presidenza sul rinvio di ObamaCare. Per il presidente, la riforma della sanità è una delle poche bandiere riconosciute come positive nei sondaggi e nei giudizi trasversali degli elettori americani. Obama e il suo segretario Law drammatizzano quindi le possibili conseguenze di un mancato accordo proprio per questo motivo.
Quindi la situazione non è così grave come afferma Law?
Il punto è che la questione dello shutdown è collegata con il default potenziale che potrebbe verificarsi a metà ottobre, per il superamento del tetto di debito pubblico federale da 16,6 trilioni di dollari, che andrebbe quindi alzato ulteriormente. Se lo stallo americano al Congresso collegasse la vicenda dello shutdown a quella del default, allora effettivamente le conseguenze sui mercati finanziari e sull’economia reale americana incomincerebbero a diventare molto serie. La mia convinzione resta però che la pressione esercitata dall’opinione pubblica sui Congressmen repubblicani impedirà loro di spingere la crisi fino in fondo, per non assumersi la responsabilità di conseguenze di questo genere di fronte a tutti gli americani. Il rischio esiste, ma è un po’ sopravvalutato per questioni di polemiche politiche.
Che cosa c’è dietro lo scontro sull’innalzamento del tetto del debito?
Dalla sua elezione nel 2008 a oggi, Obama ha aumentato il debito pubblico federale di oltre il 40%. Le regole americane sul debito sono però molto stringenti, al punto da porre diversi problemi rispetto all’enorme espansione degli interventi pubblici negli anni di crisi. Non prevedono infatti come l’Ue un limite basato sul rapporto deficit/Pil, bensì un tetto sullo stock di indebitamento. In molti negli Stati Uniti si chiedono se le regole Usa siano compatibili con un grande Paese, un’economia globalizzata e crisi così dure come quelle cui stiamo assistendo. A ciò si aggiunge il fatto che la spesa sociale del governo federale proietta delle ombre lunghe sulla sostenibilità di spesa e sul debito Usa.
A che cosa si riferisce quando parla di “ombre lunghe”?
Per rendere compatibili i ritmi di spesa voluti da Obama bisogna immaginare una crescita del Pil molto sostenuta, una produttività che continui a essere tenuta su livelli buoni soprattutto per l’immissione continua sul mercato del lavoro di migranti e lavoratori low skill. Se guardiamo l’andamento dell’indice della disoccupazione americana, un’osservazione superficiale rileva che sta scendendo tanto da avere toccato il 7%. Un’analisi più approfondita mostra però che siamo di fronte a un drastico abbassamento della partecipazione al mercato del lavoro. Tutto ciò pone un problema relativo al modello di crescita americana.
Quale?
Fino a questo momento sono state percorse due strade. Nell’immediatezza il debito pubblico è esploso, e a ciò si è affiancato fin da subito l’intervento della Fed. Gli interventi della Fed stanno però mostrando la corda, al punto che è in corso un grande dibattito per il rientro dal quantitative easing, cioè dagli acquisti sul mercato per 85 miliardi di dollari ogni mese attuati dalla Federal Reserve. Malgrado questa enorme iniezione di liquidità, è evidente che gli effetti sull’economia reale sono molto bassi, perché incidono solo sulla quota di coloro che sono interessati ai mercati azionari. In pratica l’unico effetto è quello di tenere alti i costi degli asset finanziari in Borsa, mentre la traduzione sull’economia reale produce effetti trascurabilissimi.
(Pietro Vernizzi)