Forse qualcuno ricorderà un filmato diffuso a macchia d’olio su Youtube e, di conseguenza, sui principali social network dal titolo “Kony 2012”, che voleva sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto alle violenze perpetrate da Joseph Kony e dalla sua Lord Resistence Army (LRA). Ebbene Kony non è ancora stato catturato né dalle autorità locali della Repubblica Centrafricana (territorio nel quale si è spostato dopo la decimazione del suo esercito in Uganda), né tantomeno dalle truppe americane intervenute in aiuto ai soldati del posto. Il tema è tornato attuale perché il Washington Post ha pubblicato un lungo reportage sulle attività delle forze speciali americane nella Repubblica Centrafricana, con un’attenzione particolare al dispendio di energie che l’Amministrazione americana sta dedicando a questo criminale di guerra.
Il tutto è nato dall’attività dell’associazione Invisible Children che, attraverso azioni di pressione mediatica e di forte sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ha convinto il governo americano a intervenire. Celebre è l’aneddoto di Obama che, nel momento in cui veniva informato della questione, ha risposto “so tutto, me ne ha parlato Malia [la figlia] ieri sera durante la cena”, con il quale si coglie la dimensione mediatica del caso Kony. Un caso tanto mediatico che 75 deputati americani, in agosto, hanno sottoposto a Obama una lettera nella quale spronavano il presidente a tener duro sul fronte africano per eliminare una volta per tutte la minaccia di Kony. La decisione appare originale se si tiene conto del fatto che soltanto 8 dei 75 deputati hanno sottoscritto, circa un mese dopo, l’ipotesi dell’intervento armato in Siria.
Lo stesso Washington Post riconosce l’originalità di tale azione militare, infatti a partire dall’11 settembre 2001 non si conoscono interventi americani che non abbiano riguardato in qualche modo pericoli legati all’estremismo islamico o a minacce terroristiche. Quella di Kony infatti è una minaccia territoriale, legata a problemi interni al territorio africano e senza dirette conseguenze sulla sicurezza americana. Lo stesso ambasciatore americano in Uganda ha riconosciuto che la ragione dell’impegno statunitense non è legata a una strategia di sicurezza nazionale ma è imposta all’America dai suoi stessi valori. A ciò si aggiunga il fatto che la LRA è ormai un esercito decimato e sconfitto, non ha più le dimensioni della minaccia che incombeva fino a qualche anno fa sui territori ugandesi.
L’ultimo fatto che contribuisce a definire la missione africana così singolare è il recente discorso di Obama all’Assemblea generale dell’Onu nel quale, come ha ricordato Mattia Ferraresi sul Foglio, il presidente ha ridefinito la politica estera americana concentrandosi su due aspetti fondamentali ossia il negoziato con l’Iran sul tema del nucleare e l’accordo di pace in Medio Oriente.
Una spiegazione dell’azione americana in questo territorio africano è stata avanzata dai critici del Pentagono: il connubio di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul caso Kony e la già sensibile attenzione per il problemi africani sarebbero una scusa per coprire gli interessi sulle recenti scoperte di giacimenti petroliferi nel territorio tra la Repubblica Centrafricana, il Nord Uganda e il Sud Sudan. Sicuramente una tesi che può scadere nel complottismo, ma che potrebbe rispondere ad alcune delle domande che questa vicenda suscita.