“Muoversi nelle zone di confine tra il Mali e il Niger è estremamente pericoloso e in passato si sono già verificate delle vicende terribili. E’ molto facile incappare in gruppi islamisti, nel deserto le voci sulla presenza di occidentali corrono alla rapidità della luce e c’è tutta una sorta di rete che lega le bande locali”. A rivelarlo è Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa sequestrato per cinque mesi dai ribelli siriani dopo che nel 2011 era stato arrestato dalle guardie di Gheddafi. Due esperienze molto dure, in mezzo alle quali Quirico è riuscito anche ad attraversare il deserto dell’Azawad, al confine del Mali, travestito da tuareg. La stessa zona nella quale ieri sono stati uccisi due giornalisti francesi del network RFI. Claude Verlon e Ghislaine Dupont sono stati rapiti a Kidal al termine di un’intervista con un leader politico locale e assassinati con alcuni colpi di arma da fuoco poco dopo.
Lei ha attraversato l’Azawad nell’aprile 2012. Quali insidie presenta quel terreno per un giornalista?
La difficoltà maggiore è legata alla presenza nella zona di Al Qaeda del Maghreb, cioè dei movimenti fondamentalisti che controllano vaste aree del deserto, e che per l’autofinanziamento praticano diverse attività tra cui l’industria del sequestro. Al Qaeda del Maghreb ha riempito i suoi forzieri con i riscatti pagati per liberare gli occidentali catturati. E’ una zona in cui il controllo del territorio da parte dei fragili e discutibili governi locali è molto teorico.
Che cosa ha a che fare tutto ciò con la rivolta iniziale dei tuareg?
Poiché sono una minoranza soggetta a emarginazione, se non addirittura a persecuzione da parte dei governi nelle mani delle popolazioni nere, i tuareg a poco a poco si sono alleati con Al Qaeda. I popoli del deserto si sono nel tempo trasformati in radicalisti islamici e ora si battono al fianco della jihad.
Durante la sua traversata nell’Azawad ha temuto spesso per la sua vita?
Io ho attraversato quelle zone del nord del Niger travestito da tuareg. E’ molto facile incappare in gruppi islamisti, nel deserto le voci sulla presenza di occidentali corrono alla rapidità della luce. C’è tutta una sorta di rete che lega questi gruppi, e spesso si tratta di banditi comuni che provvedono al sequestro e poi vendono gli occidentali ad Al Qaeda. E’ quindi estremamente pericoloso muoversi in quelle zone e in passato si sono già verificate delle vicende terribili.
A che cosa si riferisce?
Un anziano cooperante francese, il 78enne Michel Germaneau, aveva una piccola Ong che aiutava i tuareg. Nel luglio 2010 è stato catturato dal gruppo di Al Qaeda capeggiato da Abou Zeid. L’esercito francese ha tentato il blitz, ma quest’ultimo è fallito e lo stesso Abou Zeid ha sgozzato Germaneau. Si tratta quindi di una delle zone al mondo più pericolose insieme alla Somalia, alla Siria, all’Afghanistan e allo Yemen.
Fino a che punto i media occidentali sono ancora in grado di seguire le guerre che insanguinano questi Stati?
Spesso c’è un’impossibilità pratica di andare in certi luoghi. Ci sono zone del mondo in cui oggi tentare di andare per scrivere un reportage è un vero e proprio suicidio, perché si viene immediatamente sequestrati. E’ questo l’obiettivo principale di bande che si fronteggiano e che non sono mosse da un’ideologia quale era il comunismo, bensì dal fanatismo religioso che è qualcosa di ben diverso. Per un giornalista occidentale, raggiungere determinate parti del mondo ormai è possibile soltanto a condizione di andarci con una divisione corazzata.
Quali sono le conseguenze di questo fatto per la nostra informazione?
Ci sono guerre che scompaiono dal racconto quotidiano dei media, e le fonti di informazione restano semplicemente quelle che provengono dall’interno di quei Paesi o da mezzi di comunicazione che non appartengono più all’Occidente come Al-Jazeera e Al-Arabiya. Tutte le informazioni che riguardano questi Paesi sono quindi già filtrate attraverso questi due canali. Sappiamo bene, in particolare per quanto riguarda la guerra libica, a che tipo di disinformazione abbiano portato Al-Jazeera e Al-Arabiya. Non sono infatti dei testimoni, ma degli attori e talora dei protagonisti di queste vicende rispetto a cui hanno degli interessi politici i quali determinano quali notizie vengano o meno diffuse.
Eppure lei si è recato in Mali, in Siria e in Libia. E’ davvero possibile rompere il muro d’indifferenza nei confronti di queste guerre?
Il problema è che spesso queste storie sono tenute ai margini e considerate secondarie. La stessa vicenda siriana ne è un po’ lo specchio, e anche quanto è accaduto nel Mali è finito sui giornali sono nel momento in cui i francesi sono intervenuti. Altrimenti, che metà del territorio del Mali fosse nelle mani di Al-Qaeda non interessava praticamente a nessuno.
(Pietro Vernizzi)