La piccola Eritrea, ex colonia italiana, vive in un regime di terrore da quando è riuscita a ottenere l’indipendenza nel 1993, dopo decenni di occupazione etiopica. Da allora regge il potere il  presidente Isaias Afewerki, eletto dalla assemblea costituente: non ci sono mai state elezioni libere e popolari. Il suo pugno di ferro si esercita soprattutto sulla minoranza cristiana ortodossa ma in genere con tutti gli oppositori alla sua dittatura: dal 1993 a oggi si calcola ne siano stati imprigionati circa 10mila della maggior parte dei quali non si è più saputo nulla. Per quanto riguarda i cristiani, solo in questo 2013 ne sono stati imprigionati trecento. Di questi molti sono morti per le terribili condizioni carcerarie in cui vengono detenuti, spesso dei contenitori di metallo dell’esercito con cibo scarso e nessuna assistenza medica. L’ultima a morire è stata Wehazit Berhane Debesai lo scorso 14 ottobre, in carcere da un anno dove si era ammalata di polmonite e non è mai stata curata. La sua colpa? Essersi rifiutata di abbandonare la sua fede cristiana. Insieme a lei era stato incarcerato anche il fidanzato che si trova ancora in prigione. E’ per questa oppressione terrificante che gli eritrei continuano a lasciare il paese: circa 2 o 3mila persone abbandonano il paese ogni mese; negli ultimi dieci anni hanno lasciato l’Eritrea circa trecentomila persone. Sono i profughi che poi trovano la morte in mare come successo recentemente al largo di Lampedusa. Oltre la repressione del regime, il paese soffre poi una crisi economica devastante.



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