MOSCA – Mentre sul Majdan continuano a innalzare barricate e si moltiplicano le tende e i bracieri per far fronte al gelo, mentre nascono i punti di raccolta di cibo e abiti caldi e il servizio d’ordine interno lavora per scongiurare altri scontri con la polizia, la grande politica incomincia a muoversi per recuperare lo strappo con l’Ucraina: sono arrivati a Kiev per colloqui al vertice l’alto rappresentante per gli Affari esteri della Ue e il sottosegretario americano agli Esteri. Ma per dare chiari segni a chi dialoga nei palazzi della politica, la gente in piazza, a 21 giorni dall’inizio delle proteste, non deflette, anzi ai manifestanti si unisce sempre nuova gente proveniente da varie parti del paese. I canti, la solidarietà, le bandiere, il suono delle campane hanno lo scopo di tenere alto il morale e di invitare al sostegno reciproco.



Molti osservatori che commentano i fatti del Majdan, al di là dei grandi scenari politici, si interrogano sulle motivazioni ideali che hanno potuto spingere in piazza tanta gente, e per così tanto tempo. E intuiscono che oltre all’indignazione c’è anche una speranza positiva – che si vede nella non violenza dell’azione -, una speranza di cui riconoscono la forza, anche se faticano poi a identificarne chiaramente la natura; del resto, è probabile che neppure i manifestanti, perlomeno non tutti, nel caos e nell’esaltazione di questi giorni storici, si diano pienamente ragione delle proprie motivazioni.



È certamente qualcosa che va oltre il generico sentimento di indignazione per la vecchia politica corrotta e di speranza in un nuovo corso. È interessante osservare che di fronte alla serietà di questa esigenza popolare tutte le denominazioni cristiane del paese si sono sentite chiamate ad esprimere una posizione: chi nei fatti, come la Chiesa ortodossa “nazionale” del Patriarcato di Kiev (staccatasi dal Patriarcato di Mosca nel 1992), che ha accolto nei suoi monasteri i dimostranti e aiuta la resistenza col suono delle campane; chi con dichiarazioni ufficiali, come l’Unione delle Chiese battiste o i cattolici.



Nessuna Chiesa comunque, e questa è la novità, ha condannato la protesta né ha espresso solidarietà col governo, mentre nel 2004, durante i primi scontri antigovernativi sul Majdan, la Chiesa ortodossa maggioritaria del Patriarcato di Mosca (chiaramente legata alla Russia) aveva esplicitamente sostenuto il governo. Come ha fatto notare il vescovo Igor’ Isicenko, del Patriarcato di Kiev, le dichiarazioni abbastanza scialbe del metropolita Vladimir del Patriarcato di Mosca, che invitano semplicemente le parti alla pacificazione, rappresentano in realtà un grosso passo avanti, indicano un processo di maturazione in corso.

Ma tutto questo può ancora risentire di uno sguardo politico, dell’interesse nazionale in campo religioso, mentre la speranza della gente è incentrata su valori come la dignità della persona, la responsabilità, la democrazia che sono molto più ampi del semplice problema economico, o del legame con Mosca. 

In questo senso ha ragione il vescovo luterano Igor’ Knjazev, il quale ha osservato che la Russia usa come arma il rincaro del prezzo del gas, quindi un argomento economico, mentre la gente è tutta tesa a conquistare una qualità civile, dei valori positivi, che convenzionalmente identifica con l’Europa, non perché il nostro continente ne sia il regno indiscusso, ma perché li ha nei suoi geni e li conserva ancor oggi come fermento vitale.

Detto questo, resta anche vero che i motivi della protesta vanno rimeditati e approfonditi, poiché i giorni della piazza prima o poi dovranno finire e si dovranno per forza trovare dei passi ulteriori e degli obiettivi concreti che diano carne alle speranze del Majdan. Chi, in questo senso, ha saputo portare il discorso su un piano più alto, diremmo prepolitico, mostrando uno sguardo integrale sulla situazione, è stato l’ottantenne arcivescovo greco cattolico Ljubomir Husar, che sceso in piazza domenica 8 dicembre, ha detto alla folla che l’Ucraina ha veramente bisogno di profondi cambiamenti, ma che per questo bisogna tutti “lavorare e pregare”. Il suo è stato un richiamo severo ma paterno nel ricordare con forza che non basta neppure il sacrificio di questi giorni, perché niente può sostituire l’impegno personale e a lunga scadenza per realizzare il sogno di oggi. Lavoro e preghiera: “Lavorate come se tutto dipendesse da voi – ha detto Husar – e pregate come se tutto dipendesse da Dio”.

E dopo l’osservazione generale ha subito fornito un’indicazione concreta, traendo spunto dalle prossime elezioni amministrative che si terranno in cinque distretti ucraini. “Vorrei chiedere agli abitanti di quelle zone cosa hanno fatto perché queste votazioni siano oneste, perché non ci siano brogli. Cosa hanno fatto per scegliere candidati degni, capaci di servire il bene comune? Se hanno fatto qualcosa, rendiamo loro onore… Ho fatto questo esempio concreto perché noi tutti abbiamo a capire che se lavoreremo avremo dei buoni risultati”. Certo tutto dipende da Dio, ha concluso l’arcivescovo, ma “la nostra preghiera non dev’essere semplicemente la richiesta che Lui cambi le cose. Dobbiamo chiedere a Dio che compia ciò che dall’eternità è stabilito per noi. Preghiamo di realizzare ciò che Dio ci ha affidato quando abbiamo incominciato ad essere un popolo indipendente”.

Un’osservazione al tempo stesso alta e operativa ma certo politicamente scorretta, perché osa immettere nel campo civile e politico quell’apertura al trascendente che manca ormai dall’orizzonte di tutti gli indignati e schifati della politica. Del resto è proprio qui il seme profondamente europeo cui forse intuitivamente inneggiano i dimostranti sotto la neve.

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