Meno di un mese fa l’Iran e i paesi del 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) hanno siglato a Ginevra un’intesa sul programma nucleare di Teheran. L’intesa prevede che per sei mesi l’Iran ponga un limite all’arricchimento dell’uranio, non costruisca altre centrali e permetta l’ingresso degli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) nelle infrastrutture nucleari in ogni momento. In cambio, l’Iran vedrà riconosciuto il proprio diritto all’arricchimento dell’uranio e otterrà lo sblocco dei fondi alimentati dagli introiti delle esportazioni di greggio attualmente congelati in alcune banche occidentali. Un ulteriore sollievo per l’Iran è costituito dall’alleggerimento del regime delle sanzioni e dall’impegno preso dal gruppo 5+1 a non proporne di nuove. 



Sulla vera interpretazione però dell’accordo e sulle sue conseguenze, è intervenuta Maryam Rajavi, leader dell’opposizione iraniana che, nel corso di una conferenza tenutasi a Roma giovedì, ha criticato aspramente la politica “arrendevole degli Usa e dell’Europa” nell’affrontare la questione nucleare iraniana. Una posizione comprensibile poiché la distensione dei rapporti con l’Occidente potrebbe portare, con l’attrazione di capitali esteri, a delle ricadute economiche importanti che consoliderebbero però il regime nel breve-medio periodo compromettendo definitivamente lo sviluppo della struttura politica iraniana in senso democratico. Mentre indubbi sarebbero i vantaggi per l’Occidente che ridurrebbe la minaccia nucleare, oltre a facilitare l’inclusione di Tehran in diversi tavoli negoziali concorrendo alla pacificazione e stabilizzazione del Medio Oriente. 



Per fermare “la corsa dei mullah verso l’atomica”, ha proseguito la Rajavi “la comunità internazionale deve mettere in campo un pacchetto di misure che obblighino Teheran ad accettare il protocollo aggiuntivo dell’Aiea eliminando le riserve di uranio esistenti e mantenendo le sanzioni adottate contro il regime”. Secondo la Rajavi, infatti, i piani atomici della Repubblica islamica sono “odiati dagli iraniani perché invece di portare vantaggi hanno solo impoverito la regione esponendola ad “alti rischi ambientali”. “Gli iraniani – ha aggiunto – vogliono che siano rispettati i diritti umani, non vogliono il nucleare e non sanno che farsene di un reattore”. L’accordo di Ginevra del 24 novembre, segnerebbe dunque un “passo indietro da parte del regime e anzi, rappresenta una pesante sconfitta”. 



Temi, quello del nucleare e dei diritti umani, molto cari al Consiglio nazionale della resistenza, costituito da migliaia di attivisti iraniani costretti a lasciare il proprio paese tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 (dopo la deposizione dello Scià, la rivoluzione khomeinista e i primi mesi del conflitto Iran-Iraq), che si batte contro il regime teocratico dei Mullah, fondato sull’interpretazione ferrea dei precetti del Corano e sull’applicazione della Sharia. Il sistema del velayat-e faqih (il governo assolutista religioso), al potere in Iran da 35 anni, condiziona la vita del paese violando tutte le convenzioni internazionali sui diritti fondamentali sia con le sue leggi che con la sua condotta.

Dal 1979, anno della Rivoluzione islamica, in Iran la situazione è praticamente rimasta invariata. Se la presidenza di Khatami (1997-2005) aveva aperto uno spiraglio sottile alla possibilità di dialogo, la speranza di un cambiamento è rapidamente svanita con l’elezione di Ahmadinejad nel 2005, che ha contribuito a peggiorare ulteriormente la situazione interna.

Migliaia di persone sono state arrestate durante i cortei e centinaia nelle loro case, prigionieri che, dopo processi iniqui, stanno tuttora scontando pene inflitte per ipotizzati reati contro la sicurezza nazionale. La società civile è stata in gran parte messa a tacere, i difensori dei diritti umani sono stati vessati, intimiditi, arrestati, costretti a vivere in esilio. La condizione delle minoranze etniche e religiose è drasticamente peggiorata. Coloro che divergono dalla politica di stato, siano giornalisti, blogger, attivisti per i diritti delle donne, affrontano quotidianamente restrizioni sul diritto alla libertà di opinione, di espressione, di associazione e di riunione. 

D’altra parte, se cessassero le esecuzioni e diminuissero il livello di repressione, i mullah sanno che ciò accelererebbe il crollo di tutto il regime nel suo complesso.

Durante la campagna elettorale, il presidente Rohani ha fatto una serie di promesse che avrebbero dovuto migliorare la drammatica situazione sul fronte dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda la condizione femminile. Nella sostanza però, nonostante la nomina di un portavoce donna, non vi è stato alcun cambiamento che portasse all’instaurazione di un sistema democratico.

Tutt’altro. L’Iran, in questi anni, ha accresciuto il sostegno al terrorismo che ha contribuito a peggiorare il suo isolamento politico.

Ma nel mutato scenario internazionale, anche all’indomani delle “primavere arabe”, il fondamentalismo islamico, se prima era una piaga che riguardava solo pochi paesi, ora rappresenta una minaccia reale per la comunità internazionale.

Rajavi ha infine chiuso il suo intervento con un riferimento ai fatti di Camp Ashraf, “presidio dei rifugiati iraniani”, dove il 1° settembre, secondo l’opposizione sono stati uccisi, per mano dei sicari del premier iracheno, Nuri al-Maliki, e della Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, 52 dissidenti da parte delle forze irachene. “Coloro che hanno assediato, sparato e ucciso quelle persone dopo averle seviziate – ha concluso – prima o poi dovranno rispondere delle loro azioni davanti alla giustizia”.