Caro Direttore, riflettevo in questi giorni che qui per me, immersa come sono nell’evento della nascita e nel rapporto con i piccolissimi, è un natale continuo, con il piccolo Bambinello che si fa presente nei nostri piccoli, ma è anche continuamente la sua passione, la partecipazione di questi piccoli santi Innocenti alla sua morte. Il mio lavoro è spalancare gli occhi e vedere La Sua Resurrezione. A volte, quando chiedi, dove è il bambino, rispondono: “Ijuru”, in Cielo!



Non ci si abitua alla morte dei bambini e ti affezioni anche se tu segui per un giorno solo, come è successo con una piccola “Mugisha”. La mamma ha partorito per la strada mentre cercava di raggiungere il centro sanitario, arrivata al centro la trasferiscono subito da noi in Ospedale, aveva tutto l’intestino fuori (una gastroschisi). Mai visto prima e ci si dimentica anche certe immagini dei manuali! Cerchiamo di pulire alla meglio la piccola (pesa 2KG) e di impacchettare alla meglio con garze sterili umidificate le anse, avvolgerle in un sacchetto improvvisato, mettiamo la flebo. La piccola piange, vuole succhiare, se non vedi le anse, ti sembra tutto normale. L’unico chirurgo che abbiamo è ad un corso e poi in ferie, quindi cerchiamo negli ospedali vicini. A Mutoy c’è Paola, medico italiano che Benedetta conosce, ci dice : ”portatela e vediamo se si può fare qualcosa”. Approfittiamo così per portare anche la piccola nata il giorno prima con onfalocele.



Naturalmente non c’è l’ambulanza, cosi chiediamo al nostro autista, col permesso del Prof che è in visita in questi giorni, di accompagnarci con il pick-up della fondazione. Autista, due mamme e due bambini, due dottoresse ed una aiuto mamma. In Africa c’è sempre posto per tutti, anche in auto (non servono seggiolini vari..!) Prima di partire facciamo chiedere alla mamma se vuole battezzare la piccola, ci dice che lo ha già fatto subito dopo la nascita, che nome ha dato? “Mugisha” risponde. Cosa significa? “Fortunata”. Ci vengono le lacrime agli occhi. Partiamo, io tengo in braccio “Mugisha” cercando di non schiacciare le viscere, Benedetta l’altra piccola e ci stringiamo tra le due mamme. Inizia “il viaggio della speranza” dice Benedetta. Due ore di strada poco tratto asfaltata, molto sterrata tra le colline di bananeti e piante di caffè. Appendo la flebo alla maniglia della macchina, Benedetta chiede se voglio mettere il saturimetro, non serve, non abbiamo l’ossigeno, preferisco mettere la manina della piccola attorno al mio pollice, si crea una silenziosa intesa, quando non la sento muovere, accarezzo la manina, lei stringe la mia, e capisco che c’è ancora, cosi tutto il viaggio, sembra abbia capito che mi deve rassicurare, cerco di muovermi il meno possibile, per non darle fastidio (poi ne ha risentito la mia schiena, un piccolo sacrificio di fronte al grande di questa gente). Arriviamo finalmente all’ospedale di Mutoy, ci aspettano, si capisce che qui ci sono i bianchi a dirigere, ma quando Paola visita la piccola e scopre le anse, ci dice che non c’è niente da fare, di farla succhiare, non serve la flebo, che aveva disturbato la manina che voleva muoversi. Lasciamo l’altra mamma con la piccola dell’onfalocele, e ritorniamo, ormai si fa buio e inizia una pioggia torrenziale, dove si sperimenta l’abilità del nostro autista di passare su una distesa di acqua sperando che sotto ci sia ancora il ponte. Tengo ancora io in braccio Mugisha, la mamma non vuole, forse aveva ripreso un filo di speranza, che ora svanisce. Così nel tacito accordo di stringerci la mano, la piccola mi fa capire che lei c’è ancora. Benedetta propone di dire il rosario, l’autista dice che così facciamo piangere di più la mamma, ma alla fine decidiamo e nella cantilena la mamma si addormenta e Mugisha continua a stringere la sua manina alla mia. La mattina dopo Mugisha ha realizzato il significato del suo nome, senza la piega amara sulle labbra, direbbe Pèguy, è andata a stare con Gesù. Poi leggiamo nella letteratura medica, che questi bambini ce la fanno, che si deve fare così…, ma quante cose non ci sono, la sterilità, la sorveglianza delle infermiere, si fa quello che si può. Dopo quattro ore in cui avevo tenuto la piccola “in grembo” ho pensato che l’avevo fatta nascere al cielo.



Un giorno ho letto sul sussidiario un commento di Pigi Colognesi, sull’attesa di Péguy, lo ringrazio, sembrava scritto per me. “Voi accomodate il tempo, quand’è già fuggito. / O donna medico e donna infermiera, / voi asciugate il sangue, quand’è già versato. / Voi vedete una distesa di mediocrità immensa. / E la banalità che sommerge tutto interamente”. Ma nella storia un evento ha invertito la rotta declinante del tempo: esattamente la prima venuta di Cristo, il Natale, l’incarnazione. “E Gesù è il frutto d’un materno seno, / Fructus ventri tui, il tenero neonato / dorme nella paglia, la pula e il fieno profumato, / le ginocchia piegate sotto il suo ventre terreno”. Allora anche il giudizio finale non fa più paura: “Signore, che li avete modellati con quella terra, / non meravigliatevi se li trovate terrosi. / Voi che li avete consegnati ai vermi della terra / non meravigliatevi se dentro son bacati”. Non meravigliatevi perché “è carnale anche il soprannaturale”. Noi arriviamo dopo, ma c’è un prima che ha reso soprannaturale, tutta questa carnalità. E’ questa la coscienza che mi sostiene e mi giudica continuamente. Questa realtà così carnale, mediocre, verminosa, quella che mi circonda, e quella dentro di me, è stata “stravolta” all’origine. Sento che questo è il lavoro di conoscenza che qui mi è richiesto e sono grata per questa paradossale estremità di limite e bisogno, perché è la tenerezza di Dio che mi costringe ad andare al fondo dove Lui c’è. E’ proprio chiaro che mi ha messo qui per me, perché solo Lui può salvare il Burundi.

Ieri un’altra delle nostre situazioni limite (da manuale) una piccola Down, prematura, diagnostichiamo una atresia duodenale, fortunatamente nel weekend viene un chirurgo da Bujumbura che dice che la può operare, lui è mussulmano, anche la famiglia della piccola, chiediamo allora di spiegare la situazione ai genitori. La mattina in sala operatoria, io ho un nodo alla gola, penso ad un’altra che non ce la farà, anche se l’intervento può andare, dopo bisognerebbe fare tre settimane di nutrizione “parenterale” (cosa è!? Qui esiste solo il latte di mamma, ma non si può dare per flebo!) la sorveglianza… Entro in sala operatoria, ma subito mi viene un raffreddore fortissimo… ho proprio pensato che il Signore mi diceva “fidati” serve di più tornare a casa a riposarti ed offrire. Nella compagnia tra di noi ci aiutiamo, la famiglia dei nostri vicini con i bambini e Santa Lucia (sono veronesi) ci fa sentire la tenerezza del Natale, la visita del Prof. idealista, mi ha fatto pensare che anche lui è parte della realtà che mi è data per cambiare, allora… vai! O meglio stai a quello che il Signore da nell’attesa della pienezza di cui sperimentiamo un pezzetto di anticipo. Abbiamo fatto anche il presepe, ho trovato una capannina dove avevano infilato dentro tutti i “personaggi” anche pastori e re magi, come si fa qui tutti schiacciati nello stesso letto! Ho disfatto il tutto e dato più spazio. Abbiamo appeso il poster di Natale in francese che i nostri amici dell’Uganda ci hanno inviato. Così ci sentiamo vicini a voi e tutto il mondo in questa attesa.

Buon Natale

 

(Chiara Mezzalira)

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