Caro direttore,
sono originario del Sudan. Nel mio paese c’è la guerra da anni. Nel 2005 dopo essere stato vittima di un attacco armato vicino a una chiesa – ho ricevuto un colpo di pistola nel fianco – ho deciso che dovevo andarmene per non rischiare la vita e per sperare in un futuro migliore.

Dalla Libia sono giunto a Lampedusa, dove ho chiesto asilo politico in Italia, ma la situazione era molto confusa. Sono rimasto per qualche tempo nel campo profughi; dopodiché, una mattina, siamo stati letteralmente cacciati via tutti. Non conoscevo nessuno e non avevo il permesso di soggiorno.



Decido di partire alla volta di Padova. Giunto in stazione, qualcuno mi dice che poco distante c’è un quartiere-ghetto di neri, come me, dove avrei trovato aiuto. Infatti, dopo qualche giorno che staziono nelle vicinanze, uno viene da me e mi ospita a casa sua. Ho una casa. Ma dopo un mese, quella persona mi dice che devo pagare l’affitto. Non ho più niente con me. Mi dice che per guadagnare qualcosa, devo fare quello che fa lui. Spacciare. Non volevo, e non l’avevo mai fatto, ma non potevo rifiutarmi. Dopo solo un mese  mi hanno arrestato.



Una volta uscito, sono rientrato in carcere ingiustamente perché mi trovavo al momento sbagliato nel posto sbagliato e con la fedina penale sporca. Ma non sapevo l’italiano e non potevo difendere le mie ragioni.

Nel 2010, al termine della carcerazione ho cercato in tutti i modi di ottenere il permesso di soggiorno, ma ancora una volta sono incappato nelle maglie della burocrazia italiana. E sono stato arrestato per clandestinità.

Ho deciso di protestare iniziando lo sciopero della fame e dopo essere stato ingiustamente e violentemente maltrattato, sono finito in un ospedale psichiatrico per trenta giorni, durante i quali è stata accertata la mia sanità mentale.  



Pensavo di aver pagato tutti i miei conti con la giustizia, ma un giorno, mentre andavo a lavorare – io sono meccanico – dei poliziotti in borghese mi hanno arrestato nuovamente perché sembrava che la pena non fosse scontata interamente. 

La carcerazione è dura. Ed è quasi insopportabile se sconti la tua pena per qualcosa che non hai fatto, o per un permesso di soggiorno che hai chiesto ma nessuno te l’ha rilasciato.

Durante l’ultimo periodo di detenzione ho deciso, con estrema fermezza, di fare uno sciopero della fame e della sete, per denunciare le ingiustizie e i soprusi che stavo subendo. 

La rinuncia ad acqua e cibo mi costringeva ad alternare al carcere i ricoveri in ospedale. Volevo morire. Non valeva più la pena vivere in quelle condizioni.

Al mio ultimo arresto pesavo 95 kg, sono arrivato a pesarne 40. Non riuscivo più a camminare, ero sulla sedia a rotelle. Rifiutavo qualsiasi tipo di terapia o di alimentazione e dopo l’ennesima ingiustizia subita, davanti al comandante mi sono messo a piangere. 

Sono stato trasferito a Opera e, successivamente, nel reparto di rianimazione dell’Ospedale San Paolo di Milano. Dopo 120 giorni di sciopero della fame e della sete, quasi in fin di vita, mi viene a trovare il Magistrato di Sorveglianza a cui ero stato assegnato, cosa strana perché non ho mai sentito di un giudice che esce dal suo ufficio per andare a trovare un detenuto, oltretutto fuori dal carcere. Lui era stato avvisato dal primario dell’ospedale che gli aveva detto che stavo morendo, e che ormai avevo pochi giorni di vita. 

Quando il magistrato è venuto a trovarmi mi ha dato l’impressione che non pensasse a quello che avevo fatto, o a quello di cui ero accusato; mi è sembrato che non stesse guardando un detenuto ma un uomo che stava morendo perché non aveva più speranza nella vita.

Il magistrato mi segnala a un’associazione di volontariato che conosceva, “il tuo problema  – aveva detto – è che non hai un motivo per vivere; sono gli unici che conosco che possono darti di nuovo una speranza”.

Durante il mio ricovero ho incontrato Carlo Michele e Lorenzo, persone che mi hanno aiutato a superare quel momento drammatico. Anzitutto mi hanno offerto la loro compagnia e poi una speranza. Finalmente qualcuno mi aiutava, davvero. Il giudice del tribunale di sorveglianza di Milano mi ha sospeso la pena e i miei nuovi amici mi hanno ospitato in una loro casa. Li ho conosciuto Emanuele, Andrea, Ilaria, Gianluca e poi anche Pigi, Carmelo e molti altri che come me erano stati aiutati e sono ancora li con loro. Adesso ho tanti amici, tante speranze per cui vale la pena vivere.

Ora sconto ciò che mi rimane della pena agli arresti domiciliari. Collaboro come volontario nel magazzino dell’associazione. Senza permesso di soggiorno non posso fare nessun tipo di lavoro regolarmente. Ho un diploma professionale da meccanico che vorrei mettere a frutto in questo paese, così come le competenze che ho acquisito in carcere grazie ai corsi che ho frequentato. So fare il panettiere, il giardiniere, so usare il PC. Probabilmente senza l’incontro con queste persone, sarei morto e non sarei qui a raccontare la mia storia. Era venerdì, non sarei sopravvissuto al lunedì successivo.

Adesso spero. Ho grandi desideri per il futuro. Vorrei fare famiglia e mettere al mondo dei figli. Come hanno fatto i miei genitori con me. Sono rimasto il loro unico figlio; voglio portare avanti il nome della mia famiglia per tramandare il bene che mi ha voluto e le cose grandi che mi ha insegnato.

 

Junior

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