Venerdì alle 9.40 un’autobomba è esplosa a piazza Starco, vicino al Four Season Hotel e poco distante dalla sede del governo libanese e del premier Najib Mikati. Al momento il bilancio è di 5 morti e circa 70 feriti. Nell’esplosione, che ha interessato il centro di Beirut, ha perso la vita Mohammed Shattah, musulmano sunnita ed ex ministro delle Finanze e consigliere dell’ex premier Rafiq Hariri, vittima, anch’egli di un attentato il 14 febbraio 2005. Si pensa che proprio Mikati sia stato il bersaglio dell’attentato: l’uomo si stava dirigendo in macchina a una riunione della Coalizione ostile al regime di al Assad e favorevole all’opposizione siriana, quando l’autobomba è esplosa. L’analisi di Camille Eid, cristiano libanese, giornalista e professore di lingua araba presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università Bicocca.



Nell’ attentato di venerdì mattina a Beirut hanno perso la vita 5 persone e 70 sono rimaste ferite dalla schegge. Tra le vittime Mohammed Shattah l’ex ministro delle finanze e braccio destro dell’ex premier Hariri. Era lui il bersaglio?

A poche ore dall’attentato è difficile stabilire se sia stato preso di mira lui personalmente o se invece l’obbiettivo era quella determinata zona, in quanto dovevano passare altri cortei in vista della riunione della “coalizione 14 marzo”. Fatto sta che il bersaglio era uno degli esponenti del “14 marzo”.  E in merito…



Prego professore.

Se gli attentatori avessero avuto come obbiettivo proprio Shattah, mi viene da dire che hanno scelto un personaggio moderato della coalizione. Hanno scelto la figura sbagliata: è come avere in mente di attentare alla voce della moderazione. E non aveva una base popolare: era impegnato in campo economico presso il Fondo Monetario Moniale, in campo accademico e diplomatico.

Questo per dire che cosa?

Che non era una figura di primo piano dal punto di vista politico o per quanto riguarda la polarizzazione in atto in Libano tra i due schieramenti: sunniti e sciiti.

Quanto è grave questo fatto? Nel senso: che conseguenze possono innescarsi?



La tensione sale sempre di più. E basta ripercorrere gli ultimi eventi che sono sintomatici della crudezza delle tensioni tra le due comunità musulmane del Paese. Ogni attentato si inserisce in un contesto e in una rete più ampia, dove le due anime dell’Islam sono l’una contrapposta all’altra.

Il ministro degli interni libanese Marawaw Shernil ha detto: “l’unica strada è andare al dialogo e trovare una soluzione politica”.

Adesso la mossa più importante da fare è la formazione di un nuovo governo: non è possibile che il Libano vada avanti con un esecutivo dimissionario dallo scorso marzo (e con l’uomo incaricato di formare il nuovo governo che si trova ancora le mani legate). I politici libanesi, in primis quelli sunniti e sciiti, devono ritrovarsi per sbloccare questo impasse. Solo così si può dare una risposta a questi attentatori.

Altrimenti cosa si rischia?

L’acuirsi di queste tensioni con una possibile nuova stagione di assassinii politici 

 

 Ma l’attentato di oggi arriva inaspettato (l’ultimo è del 19 novembre) o era nell’aria?

Il clima è sempre stato teso. Ultimamente si è assistito a uno spostamento del fronte della tensione: l’attentato del 19 novembre è stato contro l’ambasciata iraniana a Beirut, non contro un personaggio politico libanese. Poi abbiamo avuto l’assassinio di un esponente militare di Hezbollah, Hassan al Lakis. E prima ancora, a Tripoli, ci sono state diverse tornate (diciotto) di scontri che hanno fatto decine e decine di vittime. E non dimentichiamoci il lancio di razzi verso località confinanti con la Siria e gli scontri a Sidono contro un gruppo anti-siriano. Quindi…

 

Dica.

Il Libano, negli ultimi due-tre anni, non è mai stato tranquillo. E tutto questo è ovviamente legato a quello che succede in Siria. La cosa più preoccupante è che il Libano paga l’assenza di istituzioni funzionanti. Manca il governo e il Presidente della Repubblica va verso la scadenza del suo mandato…

 

Instabilità totale…

Davanti a questo blocco istituzionale, le due coalizioni sembrano scommettere sulla vittoria – militare o politica che sia – dei loro rispettivi alleati in Siria. Quindi il Libano aspetta gli esiti della prossima conferenza di Ginevra – caso mai si terrà – per vedere chi la spunterà. E in base a questo si formerà il nuovo governo. La vita politica di un paese viene congelata per aspettare gli sviluppi di quello che avviene in un Paese confinante: è una cosa assurda.

 

La situazione peggiora dunque?

Chiaramente. Adesso, sentendo le dichiarazioni e i commenti dei politici e degli analisti su quanto avvenuto, la parola più ripetuta è fitna, che in arabo significa “agitazione, guerra civile”, per riferirsi proprio al rischio di una guerra civile tra sciiti e sunniti che non si limiterebbe certo al Libano, anzi, diverrebbe una guerra generalizzata in tutto il Medio Oriente. E, a dire la verità, è già così in Siria e Iraq dove sciiti e sunniti sono gli uni contro gli altri.

 

Il fine degli attentatori è dunque quello di cavalcare il clima di instabilità, incertezza e terrore?

Certamente, vogliono trascinare il Paese in questa fitna, in questa guerra di tipo confessionale in cui i cristiani libanesi si trovano tra l’incudine e il martello. Il loro fine è far cadere tutto il Paese in questa trappola, continuando a colpire la “coalizione 14 marzo” che rischia, a causa degli attacchi che riceve, di perdere il controllo della propria gente con il serio pericolo di una controffensiva di vendetta.

 

Quindi?

Quel minimo di stabilità che c’è ancora – per una volontà internazionale di tenere il Libano fuori dalla mischia – rischia di venire meno. Non si può andare avanti all’infinito senza trovare una soluzione concreta: continuerebbero gli attentati.

 

(Fabio Franchini)