E’ il 30 gennaio 1994 quando arrivo a Cape Town. Uscendo dall’aereo mi sento investire in pieno dalla luce e dal vento. Non dimenticherò mai quella sensazione. Venivo dal grigiore della vecchia Europa. Appena arrivata a Sea Point vado sul lungomare con la voglia di vedere l’oceano. Strana terra, tutto amplificato da un’immensa vastità. Un sacco di bambini che camminano scalzi e quell’aria, quel vento, quella luce.
Il paese esce da un lungo periodo di embargo, è difficile trovare anche i generi più ovvi come un pacco di pasta o una Coca-cola ma tutto intorno il cielo e la montagna sono di una bellezza eccezionale, un posto dove l’anima si espande e si inebria. Nei due mesi che seguono ci si prepara al grande evento: le prime elezioni libere e a suffragio universale.
Voci contrastanti. Molti bianchi hanno paura, lasciano il paese, vanno in Nuova Zelanda o in Australia, dicono sia più facile emigrare lì per loro. Altri, i meno pessimisti, sanno che il paese è ad una svolta e aspettano che il destino si compia. Io osservo tutto con grande curiosità, mi sento testimone di un avvenimento storico. Ancora molte cose non mi sono chiare, il retaggio dell’apartheid ormai concluso lo colgo di sfuggita, mentre cammino per le strade cittadine, ogni volta che incontro un nero sul marciapiede e lui scende per farmi passare senza guardarmi mai negli occhi, in un gesto automatico.
Fino a marzo va avanti la registrazione dei cittadini che dovranno votare. Tensioni e scontri in Bophuthatswana, bombe a Johannesburg. Il 27 aprile le elezioni si compiono, in un tripudio di emozione, la gente fa la fila per lunghe ore, cantando e piangendo all’idea di poter finalmente partecipare alla vita politica del paese. L’Anc ha la maggioranza e poi la nomina di Mandela come presidente.
Piango nel sentire l’annuncio, ricordo ancora la canzone del 1984 degli Specials, Free Nelson Mandela o Little Steven nel 1985 che canta contro i divertimenti offerti da Sun City ai soli bianchi. Sento tutta la speranza e l’aspettativa che in quel momento una nazione intera affida nelle mani di quest’uomo, Madiba come lo chiamano. In un attimo tutto potrebbe rovesciarsi, come è accaduto in Zimbabwe o in Mozambico.
Ma non succede. Mandela conduce passo passo il cambiamento, prende sotto la sua grande ala protettrice il suo paese, da vero leader. C’è grande entusiasmo, un fermento inaudito e un desiderio generale di ricostruzione e di pace.
E’ il 6 dicembre 2013, sono passati quasi vent’anni da allora. Mi sveglio stamane con un whatsapp della mia amica Alessandra che mi dice Mandela è morto. Ho sentito mia figlia la scorsa notte rientrare e l’ho sentita piangere. Lei è nata quell’anno, io ero incinta proprio mentre c’erano le elezioni del ’94. Ci abbracciamo in cucina e rimaniamo in silenzio. Tata Madiba oggi è morto, il guaritore, il padre del Sud Africa, l’ispirazione di tutti noi, la sua ombra, anche nella malattia e nell’assenza dalla vita politica, ci faceva sentire protetti, come l’anziano che abita con noi e porta con sé la memoria e la prospettiva della storia familiare. In auto la radio ci accompagna con canti e interviste e ci commuove quanto quest’uomo abbia significato per tutti.
Non ho mai provato tanta emozione per una figura pubblica, ma per lui, dopo aver vissuto qui per tutti questi anni, dopo aver studiato a fondo la storia di questo paese e averla raccontata a tanti turisti, dopo aver visitato diverse volte la sua cella a Robben Island, per lui oggi decido di portare un mazzo di fiori sul luogo del ricordo. Davanti al City Hall le transenne e la folla colorata che si raccoglie, davanti a quel balcone di Darling St. dove fece la sua prima apparizione dopo 27 anni di carcere. Ricordo così la sua figura imponente, il suo carisma, la capacità di parlare al cuore della gente.
Addio Tata, è tempo che il tuo corpo ritorni alle grandi vastità della tua Africa, ma fa che la tua anima continui silenziosamente a vegliare su di noi.
(Simonetta De Paoli)