“Ci saranno serie conseguenze per la città israeliana di Tel Aviv”. E’ la minaccia di Hossein Amir Abdollahian, viceministro degli Esteri iraniano, dopo che l’aeronautica dello Stato ebraico ha lanciato un attacco contro un convoglio militare al confine tra Siria e Libano. Ali Abdul Karim, ambasciatore della Siria a Beirut, ha invece sottolineato che Damasco potrebbe “prendere la decisione a sorpresa di rispondere all’aggressione degli aerei israeliani”. Ilsussidiario.net ha intervistato l’inviato de Il Giornale, Gian Micalessin.



Fino a che punto le minacce di Iran e Siria contro Israele vanno prese sul serio?

La Siria rappresenta un punto di passaggio fondamentale per mantenere i collegamenti tra Iran ed Hezbollah, che è una delle milizie fondamentali per il ruolo giocato dall’Iran in Medio Oriente. Non è quindi concepibile che Teheran accetti di perdere la Siria. In questo caso però dubito che ci sarà una reazione di Hezbollah, dell’Iran o della Siria contro Israele. Tutti si limiteranno come in passato ad accettare questa operazione israeliana pur condannandola a parole.



Israele è intervenuto perché c’erano armi chimiche?

Questo non lo sappiamo e non possiamo dirlo. Sicuramente le armi chimiche esistono, come pure i missili che sono passati sotto il controllo di Hezbollah transitando attraverso la Siria. Possiamo immaginare che Israele abbia percepito attraverso i suoi satelliti o altri sistemi di controllo che quel passaggio di armi rappresentava un pericolo per la sua sicurezza, e anche per questo ha deciso di intervenire.

Che interesse ha l’Iran a minacciare di continuo l’incolumità di Israele?

Innanzitutto si tratta di minacce reciproche, perché negli ultimi anni più volte gli stessi leader israeliani hanno minacciato attacchi preventivi. Fanno quindi parte di una complessa strategia, in quanto l’Iran è una delle grandi potenze mediorientali assieme all’Arabia Saudita. Il fatto di replicare a Israele, minacciarlo e presentarsi come il suo vero, unico grande nemico significa accattivarsi le opinioni pubbliche arabe e islamiste. Passiamo all’Egitto, dove in queste ore sarebbe stato raggiunto un accordo tra Fratelli musulmani e opposizioni grazie alla mediazione di Al Azhar.



La tregua reggerà?

Dobbiamo tenere conto del fatto che dietro a Morsi ci sono i Fratelli musulmani e dei partiti ancora più integralisti. Al Azhar non è intervenuta in precedenza e non ha impedito l’approvazione di una costituzione islamica, e quindi mi sembra difficile che riesca davvero a fermare il precipitare dell’Egitto verso l’abisso. La mediazione della principale autorità religiosa egiziana arriva un po’ troppo tardi per sortire veri effetti.

Per quale motivo la protesta dell’opposizione sta diventando sempre più violenta?

L’Egitto è un Paese al collasso, ed è difficile anche solo parlare di un’opposizione reale e strutturata politicamente. Ormai siamo in una situazione che è completamente allo sbando. Morsi si è dimostrato incapace di controllare quanto sta avvenendo e quindi oggi l’Egitto sta attraversando una profonda crisi economica. In due anni nulla è cambiato, se non per il progressivo inaridirsi delle risorse dello Stato. Le riserve di valuta estera sono agli sgoccioli, la svalutazione nei confronti del dollaro è imminente e il Paese, che già aveva una percentuale di povertà molto elevata sotto Mubarak, oggi è completamente fuori controllo. Quella cui stiamo assistendo non è quindi solo la rivolta dell’opposizione, ma di tutti quei disperati che non sono mossi né dal rifiuto del fondamentalismo né dalle richieste dei partiti laici.

 

La strada per fare dell’Egitto una democrazia è quindi ancora lunga?

Quanti si sono illusi che le forze spontanee potessero determinare il successo della democrazia in Medio Oriente sono state progressivamente smentite. I grandi agitatori delle masse arabe sono i fondamentalisti o, come unica alternativa, il disordine. Le dinamiche purtroppo sono sempre le stesse, non vedo un movimento riformista in grado di cambiare il Paese. Le opposizioni laiche inizialmente avevano il controllo di piazza Tahrir, ma sono stati messi fuori gioco dai Fratelli musulmani, che si sono dimostrati molto più organizzati, strutturati e capaci di fare politica. I cosiddetti laici e democratici sono stati invece sconfitti.

 

Per quale motivo secondo lei il mondo arabo non è ancora pronto per la democrazia?

La presenza del fondamentalismo rende assai difficile la compatibilità con la democrazia. Ricordiamoci che i Fratelli musulmani hanno sempre affermato che il capo dello Stato non potrà che essere sempre di religione islamica, e comunque ci dovranno essere alcune regole che deriveranno direttamente dal Corano e non dalla legislazione approvata dalla volontà popolare. Tutto ciò ci porta molto lontano da una democrazia. Del resto anche se non fossero in gioco delle forze islamiste, la democrazia è sempre comunque un processo lento, che richiede secoli e forse gran parte del Medio Oriente non ha ancora completato questo processo.

 

(Pietro Vernizzi)