Da giorni in Tunisia regna il caos. Prima l’uccisione del leader dell’opposizione Chokri Belaid, poi le dimissioni del primo ministro Hamadi Jebali che ha lasciato l’incarico dopo il fallimento del suo tentativo di formare un governo apolitico. Il paese africano sembra non trovare pace dopo l’abbandono del presidente Ben Ali. E la delusione per le vicende politiche sfocia nella rivolta, che non sembra arrestarsi, anche se apparentemente si vive un momento di tregua. Abbiamo chiesto a Paolo Bargiacchi, docente di diritto internazionale nell’Università degli Studi di Enna “Kore” un’analisi su ciò che sta succedendo.
Che ripercussioni avranno le dimissioni di Hamadi Jebali in un paese che sta vivendo delle forti tensioni?
È abbastanza imprevedibile. In effetti lo scenario tunisino si presta a qualunque interpretazione, dalle più rosee a quelle più negative. Da quando il presidente Ben Ali ha lasciato il potere nel gennaio 2011, il paese è in transizione. Un profonda transizione, dal punto di vista politico, che in questi ultimi due anni ha avuto una serie di alti e bassi. Momenti in cui la politica riesce a dialogare pacificamente (stanno lavorando sulla bozza dalla Costituzione) e momenti in cui emergono tensioni, violenze o perfino, come a febbraio, l’attentato che è costato la vita al leader dell’opposizione laica Belaid.
L’assassinio di Belaid, secondo lei, ha riacceso la rivolta?
Non credo. La rivolta è nata contro il presidente Ben Ali che ormai da 24 anni era al potere. E’ stata la reazione della società contro un governo che considerava opprimente, non legittimato. Oggi c’è un rischio diverso, a mio avviso, ed è quello di una frammentazione, di un tutti contro tutti. Tanto è vero che le proteste successive alla morte del leader dell’opposizione sono state forti. Cosa ci dobbiamo aspettare ora? Sarà molto importante quello che farà il presidente della Repubblica Marzouki, se riuscirà ad assegnare l’incarico a un nuovo primo ministro che sappia unire le diverse forze politiche e continuare il percorso iniziato da due anni.
C’è qualcuno in grado di prendere le redini in mano?
Il problema non è dato dalle persone, è più profondo. Queste sono società molto diverse da quelle occidentali: di fronte a sconvolgimenti come la caduta di un leader al potere da 24 anni, o nel caso di Gheddafi, da più di 40, attraversano una fase di incertezza che noi chiamiamo transizione, ma che lì significa dover ricominciare, ritrovare un nuovo assetto. Io penso che ci saranno dei tempi quasi obbligatori, la società dovrà fare un percorso dolente e tortuoso per trovare un nuovo equilibrio. Gli uomini incidono quando il sistema è già consolidato ed è in grado di funzionare (e la capacità del singolo fa funzionare meglio il sistema), qui parliamo di un sistema che si deve creare.
Allargando il discorso anche agli altri paesi della primavera araba, quanto ci vorrà?
Se uno fa i conti si accorge che sono passati due anni dalla fuga di Ben Ali, un po’ meno dall’abbandono di Mubarak, ancor meno dalla guerra di Libia, dal rovesciamento di Gheddafi, ma non mi sembra che questi paesi abbiano trovato un punto fermo. Forse, addirittura, la Tunisia è quello che ha raggiunto maggior equilibrio, perché la situazione in Libia ed Egitto è ancor più grave. Temo che ci vorrà tempo, non è prevedibile quanto.
In questo contesto che ruolo gioca la questione religiosa?
In generale sulla carta la questione religiosa è significativa. Però forse in Tunisia ha un impatto minore rispetto ad altri stati del Golfo. Rispetto ai vicini, a cominciare dall’Algeria, ha sempre avuto una dimensione diversa.
In che senso?
Faccio un esempio: in Tunisia nel 1956 il presidente aveva garantito la parità tra uomini e donne. E quando lo scorso anno il partito religioso cercò di inserire nella bozza di costituzione la complementarietà della donna rispetto all’uomo, la non parità, ci furono delle proteste delle donne che spinsero il partito a ritirare l’emendamento. Per cui la religione incide in quelle società, però forse in Tunisia quest’impatto è più sfumato. Il partito islamico al potere non ha manifestato apertamente l’intenzione di una svolta religiosa autoritaria, anzi è sembrato voler andare incontro a esigenze di una certa laicità dello Stato.
Le tensioni in Tunisia potrebbero avere ricadute negli altri paesi della primavera araba?
In Libia la situazione è tutt’altro che tranquilla, il governo di Tripoli non ha il controllo di alcune zone della Libia, ci sono forti attriti tra Tripoli e Bengasi. Si parla di un futuro federale, come in Iran, e questo porterà a forti contrasti interni. In Egitto, come abbiamo visto nelle ultime settimane, sembra di vedere un film già visto: le proteste in piazza, gli scontri, il tentativo dei Fratelli musulmani di dare una svolta autoritariamente religiosa alla politica egiziana. Non credo che ci sia un nesso diretto questa volta come invece c’è stato tra la fine del 2010 e il 2011. Non penso quindi che la situazione in Tunisia abbia un effetto a cascata sugli altri paesi.
Per l’Italia, invece, ci potrebbero essere delle conseguenze?
Sul piano politico diretto non credo, ormai l’Italia si muove nell’ambito dell’Unione Europea che ha già condannato l’uccisione del leader dell’opposizione e osserva con attenzione le vicende tunisine. L’unico effetto che ci potrebbe essere, se la situazione degenerasse ulteriormente, è quello relativo a una ripresa dei cosiddetti sbarchi sulle nostre coste.
(Elena Pescucci)