C’è attesa per il dodicesimo vertice dell’Organizzazione della cooperazione islamica. I ministri degli Esteri dei 57 paesi musulmani dell’Oci sono riuniti al Cairo in vista del summit in programma mercoledì e giovedì. Saranno 26 tra capi di Stato e di Governo chiamati a rappresentare le proprie comunità. Un incontro che, oggi più che mai, servirà a stabilire la linea di alcuni paesi arabi, liberatisi dalla morsa dei regimi autoritari, rispetto alla svolta democratica. Non solo. “Si attendono risposte anche sulla questione siriana”, sottolinea Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione nell’Università di Padova, intervistato da ilsussidiario.net. “Senza dimenticare l’annosa vicenda palestinese, una specie di cenerentola nei dibattiti: tutti fanno finta di interessarsi ma la realtà è che il presidente Abu Mazen è stato lasciato praticamente solo”.



Che significato assume questo summit nel quadro internazionale?
I paesi a maggioranza musulmana (stiamo parlando tra gli altri di Egitto, Libia, Algeria, Giordania, Siria e Iran), sono attraversati da due grandi processi: da un lato la sperequazione tra i paesi ricchi di petrolio, che riescono a reggere la crisi, e altri paesi come l’Egitto e la Tunisia che, invece, stanno soffrendo (lo stesso Iran, nonostante abbia il petrolio, è in una situazione critica). Dall’altro lato c’è il processo di cambiamento politico che vede l’ascesa in alcuni paesi dei partiti vicini ai Fratelli musulmani, la crescita di movimenti radicali, salafiti, e lo scontro aperto con le tendenze laiche, liberali, che non accettano più in silenzio, dopo aver abbattuto i regimi autoritari, il ritorno ad un potere di tipo assolutistico.



Secondo lei l’incontro a quali risultati può portare?
L’obiettivo è quello di arrivare a un compromesso su più fronti. Storicamente lacerata dalla tentazione di essere il paese egemone che detta le regole, l’Arabia Saudita rappresenta, oggi, soprattutto una certa tendenza del mondo musulmano sunnita e dovrà fare i conti con l’Iran che, dal canto suo, cerca di giocare un ruolo di egemonia nell’area mediorientale a difesa della minoranza sciita presente in Iraq e Libano. Ci sarà di nuovo uno scontro. E il compromesso importante riguarderà le sorti della Siria, che per ora è in una situazione di stallo. Il paese è ancora afflitto dalla guerra civile.



Per la Siria, dunque, quali scenari potrebbero aprirsi?

Difficile dirlo, pensando a come ragionano i gruppi dirigenti di questi paesi che ho citato, Arabia Saudita e Iran. Loro sosterranno la pace, cercheranno di smorzare i toni, ma la verità è che c’è ancora molto disaccordo tra i due paesi. La distanza, ad oggi, sembra incolmabile. E credo che alla fine non riusciranno a prendere decisioni decisive per la Siria.

In Italia, invece, quali ripercussioni potrebbero esserci derivanti da questo summit?
Poche. In Italia ormai anche le associazioni influenti del mondo musulmano si sono adattate a una società democratica, ne apprezzano i valori, più di tanto non guardano più al modello, soprattutto saudita che appare lontanissimo.

È stata annunciata la presenza di Ahmadinejad, il primo capo di Stato iraniano a mettere piede in Egitto dalla rottura delle relazioni diplomatiche fra i due paesi nel 1979 in seguito alla rivoluzione iraniana e alla firma egiziana degli accordi di Camp David. Che significato si nasconde dietro questa mossa?
Vuole semplicemente dire che Ahmadinejad è ormai al tramonto. È l’ultimo tentativo di riscossa che gli è rimasto. Nella partita che si è aperta dopo le evoluzioni della primavera araba, il presidente iraniano tenta di acquisire un peso nella regione tra Siria e Libano anche in funzione israeliana. Rimane comunque la volontà dell’Arabia Saudita di appoggiare i Fratelli musulmani che non vedono di buon occhio questa tentazione egemonica dell’Iran.

 

(Elena Pescucci)