A qualcuno non piacerà sentirsi dire che una fatwa corrisponde ad una condanna a morte. Soprattutto se si è oppositori o contestatori di un regime o di un’élite repressiva e illiberale. Esserne colpiti, in Tunisia, in Egitto e magari nella nostra civile ma buonista Italia, corrisponde ad essere sempre a rischio di morte. Io so bene cosa significa e so sulla mia pelle che c’è voluta una sentenza di tribunale, Bologna 23 giugno 2009, per accertarlo e renderlo chiaro a tutti.



Chokri Belaid, spulciando a fondo nei video nel frattempo emersi sul web, ne aveva verosimilmente ricevuta una dai salafiti in Tunisia e oggi giace morto, freddato da un anonimo assassino appena uscito di casa. Quella condanna è giunta a compimento e la Tunisia brucia. Le sedi di Ennahda sono date alle fiamme e la protesta divampa per le strade; la polizia abbandona il centro e lascia i manifestanti liberi di dare la caccia ai membri di Ennahda, ritenuta responsabile della morte di Belaid. Le barricate per le strade, la rabbia senza freni di chi ha visto restringersi progressivamente i propri spazi di libertà. 



Siamo di fronte alla vera rivoluzione di libertà per la Tunisia, nel sangue di chi denuncia e muore. Belaid aveva tentato di opporsi al regime islamista pseudo-moderato e per questo aveva gridato forte lo scandalo di un governo che ha come base l’intimidazione, la violenza e la distruzione di ogni diritto. Verso le donne, gli intellettuali, i dissidenti e le minoranze. Belaid aveva detto quello che nessuno, nemmeno in Occidente, ha avuto il coraggio di dire: che l’islamismo è un pericolo e che la guerra civile è dietro l’angolo. Fatalmente, con la sua morte, non si è fatto altro che accelerare il processo di disintegrazione della società civile. La Tunisia è sull’orlo del baratro e in Occidente nessuno vuole accorgersene. La modalità di eliminazione fisica dell’avversario, tramite sequestro, assassinio, scomparsa improvvisa o tortura, è un classico del potere quando teme la destabilizzazione. Non sfugga che dopo l’assassinio di Belaid e l’infiammarsi delle piazze, la strategia della repressione sarà ancora più dura ed efficace.



Ho già scritto che so bene chi c’è dietro all’omicidio di Belaid e alla repressione a mano armata, ma ho confermato con altrettanta decisione e nettezza che non lo dirò. Non lo dirò perché la coscienza in Occidente si deve risvegliare e capire da sé cosa sta accadendo al di là del Mediterraneo. Non lo dirò perché so benissimo che i tunisini, in piazza contro la repressione, hanno ben compreso la mano di sangue che ha straziato di pallottole il corpo di Belaid. 

Di che libertà parla chi oggi in Europa piange lacrime di coccodrillo sulle spoglie dei veri moderati in Tunisia e in Egitto? Con quale incoscienza si richiama Al Qaeda a bombardare il Parlamento italiano, attirando su di noi l’occhio feroce di chi ha dilaniato l’Africa e il Nordafrica? I tunisini moderati, laici, liberali e soprattutto non estremisti, sono rimasti inesorabilmente soli e noi, qui, dove le bugie si mescolano fatalmente alla verità, siamo tutti colpevoli. Senza appello e senza avvocati che possano dire il contrario.

Belaid lo ha ucciso la nostra mancanza di lucidità e di informazione, lo hanno ucciso le nostre menzogne su quella maledetta primavera che ha distrutto riforme per i diritti vecchie ormai di cinquant’anni. Il giornalista Jamel Arfaoui ha detto senza mezzi termini, commentando l’assassinio di Belaid: “Arrivano flussi di armi dall’estero nelle mani di chi sostiene il governo”. Eppure, quando qui in Italia io interpellai il governo sulla destinazione ambigua dei fondi provenienti dal Golfo, mi venne risposto in maniera evasiva, dando una sensazione di desolante e irritante inadeguatezza. Quanti Belaid camminano inconsapevoli per le strade di Tunisi, ignari dell’algerizzazione del conflitto civile di fatto in corso? Tanti, troppi. E faranno presumibilmente tutti la stessa fine, massacrati da chi alle parole contrappone le pallottole. Vedendo sui media arabi le immagini della macchina di Belaid, su cui i colpi ancora sono visibili, torna alla mente il piombo che ha oscurato i cieli italiani solo una trentina di anni fa.

A Marzouki, che a Strasburgo ha parlato di Belaid come di “un amico di vecchia data il cui omicidio non pregiudica la rivoluzione in Tunisia”, vorrei far presente che assieme ai ministri dovrebbe essere anche lui a farsi da parte. Se non ha saputo tutelare nemmeno un amico, a patto che lo fosse, non vedo come possa tutelare un paese intero che di quella rivoluzione non ne vuole più sapere. Lui e tutta la sua compagine parlamentare è stata esautorata per formarne una tecnica entro 24 ore, con l’obbligo ai ministri attuali di non presentarsi alle prossime elezioni. Il governo di Ennahda è stato abbattuto. Una mossa che potrà calmare gli animi, ma che di certo non pone rimedio ad una rivoluzione mai nata. E che sta esigendo un tributo troppo grande per una Tunisia ormai sul baratro.