Noi, all’India, decidendo di non riconsegnare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò sotto processo con l’accusa di aver ucciso due pescatori, abbiamo giocato un tiro mancino, è vero. Ma la rappresaglia di New Delhi configura una violazione decisamente più grave. All’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, la Corte suprema ha ordinato di non lasciare il Paese almeno fino al 2 aprile, mentre ha dichiarato di non riconoscere più la sua immunità diplomatica. Un atto inammissibile in tempo di guerra, figuriamoci, quindi, in tempo di pace. Ne abbiamo parlato con Enzo Cannizzaro, professore di diritto internazionale nell’Università di Roma La Sapienza.
Come giudica la decisione indiana?
E’ una violazione estremamente grave del diritto internazionale che uno stato non può adottare neanche a titolo di contromisura. Lo ha stabilito la Corte internazionale di giustizia nel 1980, in occasione della crisi degli ostaggi in Iran, quando furono tenuti sequestrati 52 esponenti dell’ambasciata Usa, dal ’79 all’81. La Corte, allora, fece sapere che nessuna violazione, tantomeno quelle contestate dall’Iran agli Usa, potessero giustificare azioni volte a colpire le immunità diplomatiche, la cui funzione consiste nel mantenere aperti i canali di comunicazione tra i Paesi.
In cosa consistono, esattamente, le immunità degli ambasciatori?
La loro persona è inviolabile (non possono essere arrestati) e non può essere soggetta a restrizioni negli spostamenti. Hanno, inoltre, l’immunità assoluta dalla giurisdizione penale. Qualora Mancini volesse muoversi liberamente o lasciare il Paese, se venisse arrestato, saremmo quindi di fronte ad una grave violazione delle sue immunità. In tutto ciò, va rilevato un aspetto particolarmente controverso.
Quale?
La Corte indiana afferma che l’ambasciatore ha firmato una dichiarazione in cui, dando garanzia sul ritorno in patria dei Marò, si sarebbe sottoposto volontariamente alla giurisdizione indiana. Va notato, anzitutto, che una rinuncia del genere dovrebbe essere espressa esplicitamente. Non solo dall’ambasciatore, ma anche dallo Stato che egli rappresenta. Ebbene, è francamente inverosimile che la rinuncia sia stata esplicita e che sia stata espressa in questi termini. Dato e non concesso che le cose siano andate così, non dobbiamo dimenticare che la garanzia viene data dall’ambasciatore in quanto rappresentante dello Stato italiano. In ogni caso, quindi, l’India dovrebbe rivalersi sull’Italia, e la rimozione dell’immunità non sarebbe comunque accettabile.
Come si spiega un atto del genere?
Ricordiamo che non è stato il governo indiano ad affermare che l’ambasciatore ha perso l’immunità, ma la Corte suprema. Ho l’impressione, quindi, che siamo ancora alla fase di applicazione del diritto interno. Spero che il ministero degli Esteri indiano intervenga al più presto per affermare che si tratta di una questione disciplinata dal diritto internazionale. L’India, inoltre, si ritiene tradita dal governo italiano, il quale ha firmato un impegno per poi disattenderlo.
E non è così?
Sì. Ma l’Italia sostiene che la sua violazione è stata la risposta alla violazione del principio dell’immunità funzionale dei soldati italiani, ovvero al divieto di uno Stato di porre la condotta degli organi di uno Stato straniero a carico delle singole persone e non dello Stato stesso. In sostanza, l’Italia afferma di aver negoziato per un anno, cercando di far valere il riconoscimento della violazione; ma siccome l’India ha insistito nell’esercizio della propria giurisdizione, il nostro Paese non aveva alternativa alla violazione, a sua volta, dell’accordo. Il che è legittimo. Anche perché si tratta della violazione di leggi ordinarie. Le norme sull’immunità, invece, hanno un grado di resistenza decisamente più elevato. Insomma, la rimozione dell’immunità configura una netta sproporzione tra azione e reazione.
Cosa avrebbe potuto fare l’India?
Avrebbe potuto rompere le relazioni diplomatiche, ordinare all’ambasciatore di abbandonare il Paese, o rompere i rapporti economici.
Ora, cosa ci resta da fare?
Le immunità diplomatiche sono disciplinate dalla Convenzione di Vienna del ’61, ratificata sia dall’India che dall’Italia. A tale Convenzione è allegato un protocollo addizionale sulla risoluzione delle controversie, anch’esso ratificato da entrambi i Paesi e vincolante per le parti. Esso prevede che qualsiasi controversia sulle immunità diplomatiche competa alla Corte internazionale di giustizia. In particolare, l’articolo 1 prevede che la parte che si ritiene violata nel suo diritto contesti formalmente al Paese l’esistenza della controversia, in questo caso sull’immunità. Dopo di che ci saranno due mesi per negoziare, al termine dei quali ciascuna della parti potrà andare unilateralmente di fronte alla Corte internazionale di giustizia.
Siamo di fronte ad casus belli?
Direi che l’uso della forza rappresenterebbe una violazione ancora più grave della rimozione dell’immunità.
(Paolo Nessi)