Dieci anni di guerra. Dieci anni pesanti. Per quelli come me, che per grazia di Dio una guerra non l’hanno mai vissuta sulla propria pelle, bastano i numeri a far paura.

Anzitutto gli iracheni: quasi 110.000 quelli che hanno perso la vita dall’inizio di questo conflitto che Giovanni Paolo II fece di tutto per evitare. Poi noi, americani, che abbiamo lasciato sulla cruda terra irachena quasi 4.500 uomini, riportando a casa oltre 32.000 feriti, creando un popolo di un milione di veterani (un milione!) di cui il 30% non ce la fa a riprendere una vita normale, con la testa e il cuore inchiodati alla croce dei patimenti vissuti nella durissima esperienza irachena. Si chiama “Posttraumatic stress disorder” (PTSD), e nessuno sa in verità come metterci le mani. Una delle critiche del momento – tra le più feroci – rivolte all’amministrazione Obama è proprio quella di trascurare i veterani. Per non parlare dello smisurato fiume di denaro che la guerra ha risucchiato. Ottocento “billions”, ottocento miliardi di dollari. Si fa persino fatica a pensare a quanti “zero” ci vanno. L’industria della guerra avrà fatto i suoi affari, ma per la maggior parte del paese questa è stata solo un’esperienza di “blood, sweat and tears”, sangue, sudore e lacrime. Molto sudore, tante, tantissime lacrime e troppo sangue. E adesso che le truppe se ne vanno tutti si chiedono perché l’abbiamo fatto, se ne è valsa la pena sacrificare soprattutto così tante vite, ma anche così tante risorse mentre il mondo intero andava infilandosi nell’angusto imbuto di una crisi economica epocale.  



Uno guarda i giornali, ascolta radio e tv e si chiede onestamente se l’Iraq che lasciamo è meglio di quello che abbiamo trovato. E non sembra proprio. I più grandi sostenitori dell’intervento armato continuano a dirci che il primo obiettivo era garantire la sicurezza del nostro Paese. Essendo che dall’11 settembre in poi gli americani sono stati continuamente sotto il tiro del terrorismo islamico, ma mai sul nostro stesso territorio, bisognerebbe dar loro ragione. Manca però la controprova. Cioè non c’è nulla che ci documenti che se non avessimo invaso l’Iraq gli Stati Uniti sarebbero stati colpiti ancora. Anzi, adesso sappiamo con certezza che le famigerate “weapons of mass destruction”, le armi di distruzione di massa che Saddam avrebbe segretamente custodito da qualche parte, non sono mai esistite. Ma non sono solo i Repubblicani a vergognarsi, quelli che c’hanno mandati a cercare per il deserto con il bastoncino da rabdomante queste armi inesistenti. Sono anche i 111 Democratici che votarono a favore dell’intervento armato. Tanti, quasi una metà dei rappresentati Democratici tra Camera e Senato, e tra questi Hillary Clinton, futuro Segretaria di Stato. 



Ricordo bene quando dieci anni fa le truppe cominciarono a partire. Mi ricordo che per quanto la follia di quell’intervento mi bruciasse dentro, capivo, vedevo che per tanta gente di qui l’America andava a fare del bene. Ne abbiamo già parlato in altra occasione, non voglio insistere su questo. La domanda che però resta e brucia è: l’Iraq di oggi è meglio di quello di dieci anni fa? E il milione e passa di Americani che c’hanno lasciato un brandello di vita, sono meglio o peggio di prima?

Veramente ci si può chiedere la stessa cosa rispetto all’Afghanistan, alla Libia, all’Egitto. Tra un po’ ce lo chiederemo anche della Siria. Appoggiamo insurrezioni, contribuiamo con mezzi e uomini a defenestrare dittatori, e il “mondo” ci risponde usandoci e odiandoci. Cadono i dittatori e coloro che avevamo aiutato diventano i nuovi nemici. Difficile capire quali siano i passi di un reale cammino di civiltà tra i popoli. Ma se abbiamo imparato una cosa da questi dieci anni di Iraq è che questo passo non sarà mai la guerra.