Quello che Barack Obama non ha detto nelle riunioni ufficiali con i governanti, lo ha affermato in pubblico, sempre a Gerusalemme, davanti ad alcune centinaia di studenti universitari israeliani. Parole dure, che gli sono costate anche delle contestazioni. Obama ha usato un linguaggio semplice, diretto, che i detrattori del presidente hanno definito semplicemente retorico. “Mettetevi nei loro panni, guardate il mondo attraverso i loro occhi” ha detto Obama rivolto agli studenti “non è giusto che una bambina palestinese non possa crescere in un suo Stato, e debba vivere con la presenza di un esercito straniero che controlla i movimenti dei suoi genitori ogni singolo giorno”. Si è spinto a parlare delle “violenze che restano impunite” all’interno dei territori palestinesi, da parte israeliana. Ha chiesto ad ogni singolo israeliano, ma anche ai loro governanti di rendersi conto che Israele è ad un bivio e che bisogna scegliere la pace perché la “sopravvivenza di Israele” è legata all’esistenza di uno stato palestinese. Obama giunge a indicare gli interlocutori con cui parlare, per nome e cognome: “Israele non può negoziare con qualcuno che vuole la sua distruzione, ma posso dire che sia nel presidente palestinese Mahmud Abbas che nel premier Fayyad può trovare due partner importanti”.
Le parole di Obama, ascoltate nella sua interezza, gettano una luce nuova sulla “retorica”, quella vera, delle trattative di pace. Sono un appello accorato agli israeliani, ma insieme carico di angoscia, affinchè si convincano che la pace è conveniente per loro e giusta rispetto alle attese degli israeliani. Obama fa intuire che nella mente di molti politici israeliani (e forse della sua opinione pubblica) lo status quo possa andare avanti. Anche a prezzo dell’occupazione dei territori palestinesi e dell’ingiustizia.
Che fare? Cosa faranno gli Stati Uniti? L’analisi che compie Obama della situazione tiene conto anche della frustrazione delle amministrazioni americane e dei suoi “inviati speciali”, che per anni hanno percorso invano il Medio Oriente. Netanyahu negli ultimi anni ha ridicolizzato Obama ed i suoi emissari, rifiutando di prorogare il blocco all’espansione delle colonie ebraiche nei territori palestinesi. Molti ricordano a Washington la fine ingloriosa dell’ex senatore americano George Mitchell, costretto a dimettersi dal ruolo di mediatore tra israeliani e palestinesi. La conclusione politica, allora, è nelle parole di Obama, a Ramallah, rivolte ad Abu Mazen. Gli Stati Uniti sono convinti che solo colloqui diretti tra le parti in conflitto potranno portare alla pace.



Insomma la grande democrazia americana, l’alleato eterno di Israele, fa un passo indietro: non presenterà alcun piano di pace, ma cercherà di convincere le parti ad avvicinare le proprie posizioni. 

Per i palestinesi, che sono la parte debole delle trattative, è certo un duro colpo. Lo ha compreso subito Abu Mazen, che si è affrettato a ricordare l’espansione in corso delle colonie ebraiche, da fermare, prima che non ci sia più nulla da trattare. 



Chi è allora Obama? Qual’è il suo volto in Medio Oriente? Quello dello statista che cerca di aprire, con azioni concrete, le vie della pace o il politico americano che prende atto che le forze in campo sono più forti di lui? E’ certo il politico che ha bisogno dell’aula di un centro congressi, a Gerusalemme, per lanciare i suoi accorati appelli.

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