Se la scomparsa di Chávez era nell’aria da tempo e solo il silenzio delle autorità venezuelane sulle sue condizioni di salute, calatosi per oltre due mesi, aveva fatto sperare in un improbabile miracolo, l’analisi che l’evento ci porta a fare rispecchia fedelmente quanto già anticipato su queste pagine in passato. Il vero problema non era insito nelle condizioni di salute del “libertador” (per usare un eufemismo a lui tanto caro), ma nella sua successione che ha dato atto a una vera e propria guerra all’interno dello stesso partito presidenziale.



Era chiaro anche prima del golpe costituzionale che, contravvenendo allo stesso documento modificato dall’attuale regime “bolivariano”, si dava in pratica a Chávez pieni poteri (esercitati ovviamente dal vice Maduro) aspettando il suo recupero da una situazione di salute che solo i dirompenti messaggi governativi davano per lento ma certo. Insomma, le elezioni previste dopo 30 giorni dall’eventuale rinuncia venivano rimandate sine die.



Adesso è chiaro a tutti come sul defunto si sia mossa un’immensa macchina mediatica tesa a guadagnare tempo con vere e proprie balle: ricordate di quando proprio da questo giornale commentavamo della guerra in atto a Cuba tra la quasi totalità dello staff medico che assisteva il Presidente (composto da specialisti venezuelani, cubani e spagnoli) e un regime venezuelano che in pratica imponeva il rimpatrio dall’isola caraibica al solo scopo di smentire le voci insistenti di una mortale infezione polmonare poi causa del decesso? Bene, detto fatto le foto diffuse a mezzo stampa, primi dati concreti dopo un silenzio assoluto, e a seguire, improvvisamente, una serie di comunicati governativi che informavano in maniera dettagliata dell’aggravarsi della situazione e, purtroppo, della sua irreversibilità.



Ma come mai un cambio così drastico di modus operandi mediatico in coincidenza con il ritorno di Chávez nel suo Paese? La risposta sta proprio nel fatto che ormai si è definito il quadro politico all’interno del Partito e anche perché nelle piazze di Caracas si stava diffondendo una protesta giovanile tesa a conoscere la verità sulle reali condizioni del Presidente. Pur essendo stato scelto da Chávez per la sua successione, Maduro sa benissimo che un’apertura nei confronti dell’opposizione non è procrastinabile, per il semplicissimo motivo che la crisi economica del Paese viene avvertita da strati sempre più ampi della popolazione e a questo punto non è nemmeno pensabile andare alle inevitabili elezioni senza ipotizzare un coinvolgimento della crescente opposizione nelle sorti del Paese. Opposizione rafforzatasi dopo la decisione che ha portato al “golpe istituzionale” sopra citato, dopo anni di divisioni interne che l’avevano indebolita.

Ma questa sua ovvia conclusione politica si è trovata a cozzare contro l’ala più oltranzista del partito al Governo, che richiama molto da vicino le “guardie rosse” del movimento filo governativo argentino della Campora. E, duole dirlo, Maduro ha perso: lo si può percepire dalla notizia diffusasi immediatamente prima della morte di Chávez che accusa chiaramente il Governo degli Stati Uniti di avvelenamento, cosa che ha provocato la cacciata dell’addetto militare Statunitense dal Paese. Una illazione del genere va da sé che riporta a un clima tipico più da Guerra Fredda che da mondo globalizzato, ma è noto come un certo “modus pensandi” sopravviva nel pensiero di frange politiche estremiste, per le quali il tempo non è passato, che ancora non hanno capito come certi giochi siano ampiamente superati da un’ economia globale che, usata in un certo modo (dimostrato proprio in America Latina, ergo Argentina 2001) può provocare più disastri di una dittatura militare genocida o di certi mezzi relegabili alle pellicole di James Bond.

Invece qui in Venezuela la notizia ha provocato l’effetto sperato nelle classi meno abbienti della nazione, quelle più favorite dalle politiche chaviste, ma pone in seria difficoltà il futuro del Paese, rafforzando oltre misura un’opposizione che adesso deve trovare un’unità granitica se vuole risultare importante nei numeri e obbligare il prossimo Governo capitanato da Maduro (certo del successo sull’onda emotiva della scomparsa del Presidente) a fare una retromarcia anche parziale da una posizione politica estremista, ma anche antistorica dettata dall’ala più intransigente del partito.

Una posizione importantissima potrebbe averla anche l’Europa se solo smettesse di considerare questa parte del mondo (l’America Latina in generale) come il giardino di casa propria e non come nazioni mature a tutti gli effetti e che pure economicamente la possono sovrastare. Anche se le risultanze dell’ultima riunione del Celac, l’organizzazione che raduna i paesi latinoamericani, e la Ue non ha dato gli effetti sperati, visto che è stata presa sul serio solo dalla Germania che al summit tenutosi a Santiago del Cile il 26 e 27 di gennaio scorsi, ha inviato la cancelliera Merkel.

E non è un caso che la locomotiva tedesca sia l’economia più forte del Vecchio Continente, dato che non si lascia sfuggire occasioni di dialogo politico-commerciale con un’area del mondo che altri paesi considerano ancora parte di una Conquista che data ormai più di 500 anni e dalla quale l’America Latina si è liberata dopo tre secoli. Fatto ancora non totalmente assimilato, per esempio, da una supposta “Madre Patria”, la Spagna, che attraverso lo strumento delle “cumbres” (riunioni), che ancora adesso hanno luogo annualmente con i mandatari sudamericani, accampa dei diritti su quest’area del mondo che proprio Chávez, tre anni fa in un suo famoso intervento, mise alla berlina. A ben vedere Chávez, come Correa ed Evo Morales, è un prodotto di questa visione antiquata del mondo… allo stesso modo dell’ala intransigente sopra citata del Partito bolivariano.

Urge un cambio di visione netto. In Italia Fanfani lo aveva capito già dagli anni Sessanta, con l’istituzione dell’Iila, l’Istituto Italo-Latinoamericano, che adesso versa in grave crisi. Il futuro sta in un dialogo serio con l’Europa, cosa che d’altronde lo stesso Chávez auspicava negli ultimi anni del suo mandato, dopo errori politici quali l’apertura all’Iran, tanto per fare un esempio: questo è senza dubbio il dato più concreto sul futuro del Venezuela, della sua eredità politica.