Una carrellata di immagini shockanti, quella che arriva da Bangkok, in Thailandia, dove una miriade di bimbetti esili vengono costretti, nei sobborghi della città, ad allenarsi nella tahi boxe, con tanto di guantoni per proteggere i loro fragili pugni e che vengono fatti sifdare tra loro, come animali, su ring clandestini. Il giro d’affari che ruota attorno alle scommesse sulle lotte tra i mini-boxeur sta raggiungendo dimensioni esorbitanti e molti sono i turisti disposti a pagare per poter assistere agli incontri di lotta e puntare sul loro puglie preferito. Ma non è la prima volta che questa piaga emerge: già nel 2000, il quotidiano La Repubblica denunciava in un suo articolo lo sfruttamento di questi bambini costretti a prendersi a botte. Bambini dei quali i loro allenatori – anche se più corretto sarebbe chiamarli “padroni” – dichiarano almeno 15 anni di età, ma che a vederli sembrano a stento aver raggiunto la decina; che sulla carta si dice pesino 45 chili ma che sono esili come giunchi. Questi ragazzetti vengono fatti correre dai loro “maestri” due ore al giorno, alle quali ne seguono due di allenamento e vivono, in gruppi di 10 circa, insieme al vecchio ed esperto boxeur che li “alleva”, al quale devono consegnare gran parte dei soldi che guadagnano sul ring. Per loro non c’è fuga, né possibilità di scelta: o combattono, facendo divertire gli astanti che si esaltano alla vista di show disumani, o vanno incontro alla morte nelle province depresse del paese, prive di mezzi e risorse, dalla quali provengono.



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