La forza dell’acqua ha travolto tutto, tranne la volontà di vivere e l’amore dichiarato ai quattro venti da un popolo intero. Martedì 2 aprile doveva essere un giorno tranquillo, in cui si ricordava la guerra del Sud Atlantico tra Argentina e Gran Bretagna nel 1982. Inoltre, era l’ultimo giorno di un fine settimana extralungo, iniziato con la Settimana Santa. Tuttavia, all’alba sulla città è scoppiato un violento temporale, che rapidamente ha inondato le strade trasformandole in veri e propri fiumi.
Quartieri di questa grande città da cui arriva il successore di Pietro sono rimasti allagati e senza energia elettrica. I dati parlano di un’eccezionale caduta di pioggia, ma è anche vero che la città è rimasta sommersa dall’acqua quattro volte negli ultimi due anni e mezzo.
Ciò vuol dire che il cambiamento climatico ci ha messo del suo a queste latitudini e che il sistema infrastrutturale di Buenos Aires, con vari corsi di acqua sotterranei che molti anni fa sono stati coperti per costruire grandi strade in superficie, non è adeguato per sopportare questo tipo di tormente.
Le immagini televisive delle prime ore del mattino erano purtroppo conosciute, perché già viste: auto che galleggiavano alla deriva nelle strade, case e negozi invasi d’acqua, gente in lacrime che protestava per aver perso tutto, notizie ancora imprecise su alcuni casi di morti per annegamento o folgorazione elettrica. Nel frattempo, l’imperizia e la negligenza dei politici offrivano alla popolazione un nuovo spunto per protestare contro le opere pubbliche definite improrogabili ancora non realizzate. Nelle ore del pomeriggio, il temporale è avanzato verso sud, fino alla città de La Plata, capitale della provincia situata a sessanta chilometri da Buenos Aires.
Raccogliamo la drammatica testimonianza di Jerónimo, un padre di famiglia che ci racconta dettagliatamente in ordine cronologico quello che gli è toccato vivere nelle interminabili ore in cui la tormenta si è trasformata in alluvione, panico e morte.
17.30. Mi svegliai dopo la siesta. Già pioveva. Alle 18 la pioggia era diventata intensa, guardavo dalla finestra e per la quantità di pioggia che cadeva non riuscivo a vedere la casa di fronte.
18.30. Il terreno non assorbì più e l’acqua cominciò a entrare in casa. Ho improvvisato un barriera sulla porta per fermare l’acqua con un legno di 30 centimetri di altezza e alzai con due pezzi di legno il tavolo da ping pong dei miei figli. Ana, mia moglie, raccoglieva l’acqua che riusciva a entrare con un’asciugatrice e un panno. La pioggia si fece ancora più intensa e l’acqua cominciò a entrare in casa. La strada si era trasformata in un fiume, l’acqua sopra gli zoccolini ci dava appena il tempo di alzare gli armadietti che avevo costruito per i vestiti dei miei figli. I ragazzi divertiti da tutto questo si misero a costruire barche di carta…
19.00. L’acqua alle caviglie, buttavamo sopra i letti i vestiti e le altre cose. I ragazzi ora piangevano, non era più un gioco, solo domande: “Papi sei preoccupato?”.
19.30. Fuori un metro d’acqua, dentro 80 cm. Cercavamo con mia moglie di salvare le cose. Istintivamente già pensavamo di salvare qualcosa, suppongo le cose più importanti per ognuno di noi: Ana i vestiti di Ana Clara (40 giorni); i ragazzi, Jere (10 anni), Mati (8 anni) e Luciano (6 anni), avevano le stesse priorità: in primo luogo la playstation (che io avrei buttato nell’acqua molto volentieri) e le chitarre; e io (imbarazzato dalla mia lista) non pensai a nessuno degli attrezzi da lavoro, il mio ordine fu: chitarra, racchette e macchina fotografica.
20.00. (già senza energia elettrica) sopra le sedie nelle quali stavano fermi i ragazzi, già arrivava l’acqua. Allora ho messo altre quattro sedie sopra il tavolo da pranzo e ho aiutato i tre bambini, la loro madre e la piccolina, che piangevano di paura, a salire.
Era sempre più difficile circolare per casa, tutto galleggiava: sedie, libri, carte, poltrone, perfino il frigorifero. Le domande continuavano:”Papi moriremo?” “La casa cadrà?”. Ana propose di pregare, ma una cascata di epiteti uscì dal più piccolo dei ragazzi che disse: “Perché pregare Gesù se ci sta facendo succedere questo?”.
20.30. Un metro d’acqua dentro casa. Chiamo mio suocero e mio padre, per sapere come stavano. Furono le ultime chiamate che riuscii a fare e furono provvidenziali, visto che non riuscii a comunicare con nessun’altro. La strada era già un fiume fangoso che travolgeva tutto.
I vicini che potevano scappavano, gli altri gridavano chiedendo aiuto. I bambini ora ci chiedevano di pregare. L’acqua continuava a salire. Non posso spiegare con parole quello che sentivo in quel momento. Sopra il tavolo da pranzo c’era il mio tesoro più importante e non sapevo come salvarlo. Avrei dato assolutamente tutto quello che avevo per poterli mettere in luogo asciutto e sicuro. In quel momento non sapevamo se l’acqua si sarebbe fermata lì o se avrebbe continuato a salire, arrivando a due metri, o fino al tetto.
21,00. Notte buia, la pioggia non si fermava. Mi venivamo in mente cose assurde, come far salire in qualche modo tutta la famiglia sul tetto di casa, ma non avevo una scala. Nel bel mezzo dalla disperazione sento mio padre che mi chiama dalla finestra urlando. Non so come era arrivato, perché era praticamente impossibile avvicinarsi alla casa, era con mio cugino Ber.
21.30. Discutemmo un po’ il piano di salvataggio visto che la manovra era abbastanza rischiosa. Fuori ora pioveva e c’era molto vento. Bisognava attraversare la strada che era un turbolento fiume notturno di 1,2 metri di profondità.
21.45. Primo viaggio schivando buche, gradini e macerie. Mio cugino aveva fatto un rilevamento del terreno e sapeva dove c’erano i principali ostacoli. Nel primo viaggio eravamo papà, mio cugino con Mati sulle spalle e Jere sopra di me. Ana, Luciano e Ana Clara aspettavano sopra il tavolo il nostro ritorno.
Avevo molta paura quando uscii, e molta di più quando dovetti attraversare la strada, l’acqua spingeva forte e a malapena riuscivo a mantenere l’equilibrio. Arrivammo all’auto di mio padre sani e salvi, lasciammo Jere e Mati con mio padre e tornammo a prendere gli altri. Ana racconta che nella nostra interminabile assenza Luciano le chiedeva di pregare, perché tremava spaventato.
Entrai in casa schivando, libri, sedie e mobili che galleggiavano, mia moglie mi passò la neonata, mio cugino si caricò Luciano e uscimmo. Avevo il panico, stavo per attraversare un fiume con corrente forte e profondo 1,2 metri con pioggia e vento, di notte, con una bimba di 40 giorni. Attraversai con Ana Clara avvolta in asciugamani e coperte, abbracciandola all’altezza del mio collo perché non si bagnasse.
Improvvisamente, mia moglie Ana perse l’equilibrio e quasi il fiume se la portò via, ma mio cugino le tese la mano e potemmo tutti e cinque continuare la traversata. Girammo l’angolo, io camminavo veloce, Ana Clara dormiva; incredibile, dormiva! Arrivammo all’auto, mio papà ci stava aspettando. Io ero confuso, non so cosa dissi, non mi ricordo.
22,30. Arrivammo nella mia casa paterna. Scesi per primo, bussai alla porta, uscì mia mamma. Mi abbracciò in un abbraccio interminabile. Piansi senza lacrime, avevo un nodo alla gola. Io e la mia amatissima moglie ci abbracciamo. Abbracciai i miei figli. Eravamo sani e salvi.
In quel momento non mi importava assolutamente niente della mia casa, né di tutto quello che perdemmo. Non riuscii a dormire, passai la notte sveglio ricordando e ringraziando Dio di averci accompagnato e protetto quella notte, c’è gente che non ce l’aveva fatta.
3.30. Suonò il telefono. Mio suocero aveva bisogno d’aiuto. Non poteva usare il suo furgoncino perché l’acqua arrivava ai finestrini. Nel tragitto continuavo a sorprendermi per la catastrofe che stavamo vivendo. Auto ribaltate dall’acqua, gente che vagava per le strade cercando familiari e amici, famiglie intere in strada che camminavano con difficoltà, strade piene di macerie e fango, tutto senza luce. Tutto molto desolante.
8.00. Tornai a casa mia, entrai e vidi il tavolo che ci era servito da rifugio il giorno prima sottosopra e piansi, piansi molto angustiato. Suppongo che scaricai tutta la tensione del giorno precedente. La casa era a soqquadro. Credo che nemmeno intenzionalmente si poteva creare un disastro del genere.
11.00. Ero solo in casa, affliggendomi per tutto quello che avevo perso. A partir da quel momento fu tutta una sorpresa, emozione e allegria per le dimostrazioni di sostegno solidarietà ricevuti da parte di tutti. E ringraziai Dio, che scrive diritto su linee storte, per averci salvato e fatto capire in una sera cose che non apprenderemmo in anni”.
In effetti, la risposta di solidarietà del popolo fu spontanea e commovente. Jorge, un altro amico de La Plata, ha risposto alla mia chiamata con questo messaggio:”Grazie caro amico, stiamo bene. Prima dell’inefficiente, lento e malintenzionato apparato statale (municipale, provinciale e nazionale) la disponibilità della gente, in particolare dei giovani della Caritas, del Banco Alimentare, della Croce Rossa, delle parrocchie, delle scuole cattoliche e di alcuni centri evangelici, ha dato risposte umane di fronte a una simile catastrofe. Come ha detto un fedele nel quartiere, “l’effetto Francesco” ha sensibilizzato i nostri cuori all’azione misericordiosa di Cristo. Un abbraccio”.
È stata un’enorme prova di solidarietà, e anche di sussidiarietà: l’aiuto delle organizzazioni intermedie ha superato ampliamente in quantità ed efficacia quello delle autorità ufficiali. A più di una settimana dall’alluvione, i politici ancora litigano tra loro per la quantità di morti (ufficialmente 52, ma apparentemente qualcuno in più) e si accusano a vicenda per la responsabilità di quanto avvenuto.
Tutti dobbiamo pulire profondamente le nostre case, staccarci dalle cose inutili e anche di quelle utili per darle ad altri, accompagnare chi soffre di più, affrontare la realtà rispondendo alla naturale domanda che sorge sul significato di tutto quel che è accaduto.