Sono in viaggio. Ho saputo di quel che è successo a Boston nel mezzo di un aeroporto, tra un arrivo ed una ripartenza. Messaggi back and forth con figli e amici, notizie frammentarie, e nessuno che ha voglia di dire quelle parole che tutti pensano, che sono inchiodate nel cervello di ogni Americano: un attacco terroristico. L’America, nel suo innato ottimismo e nella perenne certezza di poter raggiungere qualsiasi obiettivo grazie a determinazione e forza, non ama parlare di quello che non è in grado di controllare. Per giorni i media hanno stoicamente ignorato le folli minacce della Corea del Nord. Folli si, ma considerata la provenienza, non impossibili. Non che si tratti di una malattia di cui gli Americani hanno l’esclusiva. Tutte le culture evolute dell’occidente fanno quel che possono per ignorare dolore e morte.
Il dolore talvolta è ammesso, in caso di lieto fine, ma la morte no. Perché non c’è nulla come la morte capace di imporre in maniera ineluttabile ed invincibile il fatto che non siamo i padroni della nostra vita. Le bombe di Boston, a differenza di quelle coreane, sono esplose e non possono essere ignorate. La grande giornata della maratona, questo solare e gioioso rito della primavera in cui sforzo e riuscita si fondono in una sorta di grande festa popolare, si macchia di sangue innocente. Persino un bimbo di otto anni tra le vittime. Morti, tanti feriti, tanto sangue ed una crudele e paradossale pena del contrappasso per quei maratoneti che hanno perso nell’esplosione le gambe che li avevano condotti fino al traguardo.
Oggi, the day after, ancora non si sa granché. Come ha detto il Presidente Obama in TV, “We still do not know who did this and why”, non sappiamo né chi, né perché. Non è difficile immaginare quel che accadrà tra qualche giorno: il dibattito si infiammerà, le polemiche sulla capacità di difesa del nostro territorio, sui tagli alla sicurezza, sulla conclusione delle guerre in terra araba arroventeranno la politica e riempiranno i notiziari. E la gente, ordinary people, la gente comune, si troverà ancora una volta di fronte alla grande, lacerante sfida che la tolleranza priva di ragioni prima o poi inevitabilmente produce. Quale sfida? Quella di vedere un arabo, aver paura, e cercare di costringersi a pensare che no, non è giusto. Paura, perché non sappiamo ancora di Boston, ma è un fatto che in questi anni gli unici ad uccidere gli Americani “perché Americani”, sono Arabi e sedicenti Musulmani. Ma, vedete, questo non si può dire. Bisogna essere tolleranti. È quella stessa tolleranza che fa’ dire “io omosessuale non sono, ma se quelli vogliono sposarsi”, oppure “io non abortirei, ma se quelli vogliono”, e le mille altre cose segnano la vita della società d’oggi. Perché la tolleranza, non essendo amore, può essere davvero stupida.
Ma intanto nell’oggi, nella speranza poco fondata di scoprire che si sia trattato del gesto di un folle piuttosto che di due bombole del gas difettose, non potendo negare lo spargimento di sangue, la morte, la vita offesa, cerchiamo eroi. E li troviamo. C’è sempre qualche eroe a ridar fiato al nostro bisogno di vita, alla voglia di riprendersi, al bisogno di ripartire. Così la TV continua a mostrarci le immagini di quel 78enne che, giunto a pochi metri dal traguardo, scaraventato a terra dall’esplosione, si rialza faticosamente e faticosamente porta a compimento la sua impresa, ignaro dell’accaduto. Oppure i tanti tra forze dell’ordine e spettatori che pur consapevoli della gravità della situazione, invece di scappare si gettano a soccorrere le vittime dell’attentato.
Non è solo una questione di buoni sentimenti da mettere in vetrina per lenire il dolore. Si, ci sono di mezzo anche quelli, ma c’è anzitutto il bisogno insopprimibile di trovare un punto di positività per non restare annichiliti da ciò che non si può controllare. Gli eroi, le gesta eroiche della gente comune, come affermazione del bene sul male, come esempi da seguire perché la nostra società continui il suo cammino. Tutto questo è molto Americano. Sarebbe bello che, nel tentare di riprendere il cammino della vita dopo questa giornata di sangue, prima che le parole riprendano a predominare sui fatti, capissimo che le gesta eroiche su cui oggi fissiamo lo sguardo non sono manifestazioni di tolleranza, sono atti d’amore.