Martin e Bill. Per un attimo i loro destini si incrociano. Entrambi americani. Diventano le icone della strage alla Maratona di Boston. Per due motivi molto diversi, opposti. Il primo è Martin Richard, il bambino di 8 anni che è morto nell’attentato dopo essere andato incontro al padre e averlo abbracciato, felice di averlo visto arrivare al traguardo. Il secondo è Bill Iffrig, 78 anni (correva la maratona numero 45), ex falegname, crollato a pochi metri dall’arrivo dopo lo scoppio della bomba e rialzatosi per finire la gara. Due rovesci della stessa medaglia… Perché le pagine dei quotidiani, i radio e telegiornali hanno scelto di raccontare la loro storia? E com’è stata gestita dai media la tragedia che ha colpito gli Stati Uniti? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Marcello Foa, direttore generale di TImedia ed esperto di comunicazione.
Quali meccanismi si nascondono dietro a stragi come quella di Boston?
Chi compie atti terroristici come questo ha un requisito fondamentale e ineludibile che è quello della massima visibilità e dell’impatto pubblico. Un grosso attentato non testimoniato da immagini e filmati è come se non esistesse. Ne abbiamo avuto tante volte la prova in passato, tanto più è vero in questa occasione. È quasi naturale che i giornalisti facciano il loro mestiere: il giornalismo è un mestiere abbastanza strano, non è solo freddamente razionale, si cerca di riportare nel modo più realistico possibile le immagini più forti, più scioccanti, più emozionanti.
Il ruolo dei giornalisti qual è stato?
È ovvio che il dopo-attentato avvenuto in un luogo pubblico dove ci sono anche i giornalisti (e la maratona di Boston è un evento storico importante per gli abitanti della città, ma anche per l’America) è fatto di giornalisti che scattano le immagini più commoventi. Per chi ha pianificato questo attentato, il ruolo dei giornalisti è stato fondamentale e attentamente calcolato.
Come viene gestito invece il dopo attentato da parte delle autorità?
Come al solito. Secondo me non abbiamo ancora visto tutto. In questi casi prevale da un lato la necessità di assicurare un’informazione corretta, per cui si tende a dare le notizie solo quando sono verificate, quando gli indizi sono certi. D’altro canto, però, ci sono sempre fonti dietro le quinte che tendono a indirizzare, ispirare i giornalisti e iniziano a uscire indiscrezioni che magari orientano il sentimento dell’opinione pubblica, la quale in questo momento cerca un colpevole.
Si sono rincorse varie indiscrezioni, già subito dopo la strage.
Si è parlato di un uomo nero sopra un edificio, della caccia a un arabo… Secondo me la giornata che si sta aprendo in America (ieri, ndr) ci porterà ad avere indicazioni più precise. Capiremo quali elementi hanno gli americani in mano e se c’è una pista sicura o se si è trattato di un timore che si era verificato nei mesi scorsi e si è concretizzato in questa occasione.
Obama non ha pronunciato la parola terrorismo dopo la strage (l’ha fatto il giorno successivo, ieri, ndr), perché?
Rientra normalmente nel comportamento ufficiale. Se torniamo indietro nel passato e ripercorriamo la condotta delle autorità americane dopo l’11 settembre, in quel caso il terrorismo era evidente ma impiegarono 24 o 48 ore prima di indicare in Al Qaeda un possibile responsabile. In questo caso Obama vuol forse evitare errori come in occasione dell’attentato in Oklahoma 20 anni fa, quando inizialmente si disse che si trattava di un attentato a matrice islamica e poi risultò, invece, essere stato commesso da un estremista americano. Il rischio in questi casi è quello di indicare un possibile obiettivo, ingenerando una caccia all’uomo.
Come viene gestita la comunicazione tra tv, radio, social network?
Dal punto di vista istituzionale come sempre. Ci sono due livelli, costituiti dai blog e da twitter, dove la gente scrive ciò che pensa; poi c’è l’informazione formale. Quello che è cambiato con l’avvento delle nuove tecnologie (smartphone, ipad…) è che tutta una serie di testimonianze che prima erano possibili solo grazie a fotografi e giornalisti sul posto oggi vengono avvalorate da persone che sono sul posto, non per forza giornalisti. Molte delle immagini, i primissimi filmati, di gente riversa a terra sanguinante sono di persone che erano lì e hanno avuto la prontezza di spirito di filmare, anche per l’uomo in nero credo sia andata così.
Cos’è cambiato rispetto a prima dell’avvento delle nuove tecnologie?
È cambiato un po’ il rapporto: prima l’uscita delle notizie e delle immagini era sempre e comunque istituzionale, oggi invece le istituzioni fanno uscire le notizie formali controllate secondo il loro punto di vista, ma al contempo devono gestire, spiegare o relativizzare le immagini che escono dai testimoni sul posto. Il che rende per un comunicatore la sfida ancor più interessante ma ovviamente ancor più complicata. È una nuova forma cui chi si occupa di comunicazione deve far fronte e considerare.
E dal lato dei giornalisti?
I giornalisti tendono a pubblicare le notizie verificate o da fonti che loro ritengono credibili. Fa parte dell’abc del giornalista avere delle fonti non ufficiali, perché se noi ci limitassimo a pubblicare solo quello che esce è chiaro che si fa un’informazione piatta. C’è un problema storico: non sai mai se quel che tu raccogli da una fonte che tu proteggi perché è una fonte anonima sta usando te o se tu usi la fonte. È un dilemma che non si è mai risolto. In questo caso è chiaro che i giornalisti tendono, specialmente quelli del posto, a far valere rapporti consolidati da tempo. È come se a Milano o Roma ci fosse un attentato, il cronista di Milano o Roma è privilegiato. Poi c’è la questione di monitorare che cosa esce sui siti, cosa diventa verità.
In che senso?
Ci sono siti anticonformisti che rilanciano con molta disinvoltura tesi che possono essere plausibili, magari sono anche talvolta vere, ma che sono ritenute troppo forti, per cui non rimbalzano mai o lo fanno con estrema cautela sui siti ufficiali. Allora la gestione dell’informazione riguarda anche questo. Devi capire cosa emerge, se la gente crede alla versione ufficiale, se nascono voci di complotti, se invece magari ipotesi che i media tradizionali non avevano contemplato in un primo momento si dimostrano realistiche e vengono quindi adottate. È molto interessante e complesso.
I media condizionano la popolazione?
In questo caso moltissimo. Io sono stato testimone di due grandi stragi del passato entrambe in Russia: una a Beslan, la strage dei bambini a scuola, e una nel teatro Dubrovka a Mosca con gli ostaggi. Ebbene, quel che rimane impresso per mesi e settimane e condiziona e commuove tutti sono le immagini. Le stesse relative a Boston che stanno commuovendo ora: donne in lacrime, uomini sotto choc. Più è comune la gente più chi osserva queste immagini si identifica nei protagonisti della foto. L’effetto ultimo, quello che i terroristi vogliono ottenere, è quello che chi osserva queste foto sente una partecipazione emotiva molto intensa, è come se fosse lì, è come se questa strage lo toccasse. In queste ore in America non si parla d’altro, in queste ore rimane impresso nel collettivo non tanto la notizia dei tot morti o feriti quanto le immagini di quella donna che piangeva, di quel bambino, di quelle persone sanguinanti… Un’espressione, un dettaglio, una lacrima che va a colpire, è quello che lascia il segno.
Cosa pensa di twitter come strumento di informazione?
In queste vicende è pura emozione, uno sfogo di rabbia. La gente sovente prima twitta e poi pensa. Rileggersi le twittate che molti hanno fatto in quelle ore giornalisticamente è molto interessante. Il giornalista quando è sul posto della tragedia cerca di trasmettere l’emozione che si vive in quel momento. E twitter in questo contesto è una fonte di emozioni molto molto intensa, con una premessa da fare però: di quel che viene twittato e pensato, ben poco è verificabile, per cui va preso così come una testimonianza interessante dei nostri tempi, non come una fonte di assoluta affidabilità.
Secondo lei, tornando a Boston, che atmosfera si respira in America?
C’è molto allarme. Da quando è uscita la notizia si moltiplicano gli allarmi. È stato evacuato LaGuardia di New York, ieri avevano messo in sicurezza Times Square e a Boston hanno invitato la gente a evitare i luoghi pubblici molto frequentati. Questo è l’effetto duraturo. Chi conosce bene l’America ha sempre notato come l’effetto dell’11 settembre sia stato duraturo, secondo me quasi permanente. Negli ultimi mesi anche dopo la rielezione di Obama si aveva la speranza che gli americani potessero dimenticarsi la paura che li ha attanagliati per questi ultimi dodici anni, e invece un attentato di questo tipo fa rivivere l’emozione profonda dell’11 settembre, fa rivivere la sensazione di insicurezza e questo secondo me avrà effetti politici, oltre che sociali, molto profondi. Alla fine sarà la conseguenza più pesante di questo attentato.
(Elena Pescucci)