Il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato alla BBC che Israele ha il diritto di fare quanto è in suo potere per impedire che le armi chimiche siriane cadano nelle mani sbagliate. Per il premier, se i terroristi dovessero sequestrare armi anti-aeree e chimiche, diventerebbero l’ago della bilancia del Medio Oriente. Ilsussidiario.net ha intervistato Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale.



Che cosa ne pensa dello scenario delineato dal premier Netanyahu?

E’ uno scenario che potrebbe verificarsi. Esistono effettivamente dei depositi di armi chimiche e si trovano in zone che potrebbero essere raggiunte dai ribelli. Un intervento israeliano però esaspererebbe la già drammatica conflittualità in cui vive la Siria, e potrebbe avere un effetto assolutamente devastante per l’intero Medio Oriente. Sarebbe più opportuno un intervento americano o europeo, come è stato delineato più volte in passato, con l’obiettivo specifico di evitare il diffondersi delle armi chimiche. Resterebbe comunque una scelta pericolosa e con molte controindicazioni, ma pur sempre meno disastrosa di un blitz israeliano che rischierebbe di minare dalle fondamenta quel poco che resta della stabilità mediorientale.



Quanto sono realmente pericolose le armi chimiche siriane?

Le armi chimiche siriane, finché restano nelle mani di Assad che non le ha mai usate né intende usarle, sono relativamente poco pericolose. Diventano estremamente pericolose se cadono nelle mani di gruppi come Al-Nusra, che formalmente appartengono alla galassia della rivolta jihadista in corso contro Assad. Queste formazioni agiscono autonomamente e si dichiarano addirittura schierate su posizioni vicine ad Al Qaeda. Quindi è chiaro che le armi chimiche, se cadessero in mano loro, potrebbero essere usate non solo per fare cadere Assad o per combatterlo, ma anche nello scenario globale per mettere a punto attacchi terroristici contro quello stesso Occidente che ritiene di dover sostenere la rivolta.



Quanto è forte ancora Assad e perché la situazione è così bloccata?

Perché non c’è un Paese contro Bashar Assad, ma una nazione divisa in due. Il 50 per cento della popolazione è composta dalla minoranza cristiana, dagli alawiti, ma anche da buona parte dei sunniti che continuano a restare con Assad. Molti generali e ufficiali dello stesso esercito sono sunniti e continuano a sostenere il regime.

 

Quanto conta l’influenza delle potenze straniere?

Chi lotta contro Assad ha il sostegno di potenze regionali quali Qatar, Arabia Saudita e Turchia, oltre all’appoggio occidentale. Dall’altra ci sono alleati come Pechino e Mosca, importanti dal punto vista economico e del rifornimento di armi, e la compartecipazione all’attività bellica dell’Iran e di Hezbollah, che ritengono fondamentale per il mantenimento dell’asse sciita la sopravvivenza di Bashar Assad e dell’attuale regime siriano.

 

Lei è stato più volte in Siria. Che cosa ha visto?

Quel che balza di più agli occhi quando si viaggia a Homs, Aleppo e altre città siriane è la sostanziale difformità tra i resoconti giornalistici che riceviamo in Occidente e quel che accade sul terreno. Esiste effettivamente una situazione di guerra. In particolare Aleppo, almeno nella parte che si affaccia verso la Turchia, è una città circondata dai ribelli, ma al suo interno esiste una vasta parte della popolazione che continua a vivere normalmente e a sostenere la necessità di battersi con Assad.

 

Per quali motivi?

Considerano il regime comunque più legittimo di un’opposizione armata, foraggiata da Stati stranieri, come il Qatar e l’Arabia Saudita. I ribelli sono inoltre ritenuti pericolosi, incontrollabili, disorganizzati, privi di una guida politica e soprattutto colpevoli di massacri efferati e di attentati che mettono a rischio la popolazione civile. Attentati che sono descritti da chi vive a Homs e Aleppo come terrorismo puro e non come ribellione e lotta contro il tiranno.

 

(Pietro Vernizzi)

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