Si dice che la carriera di Margaret è stata un enigma, in realtà è enigmatica solo in termini ideologici. In termini umani, rappresenta qualcosa di molto vicino alla coerenza. 

Naturalmente non era plausibile che una donna arrivasse nel panorama nella politica britannica – la prima donna, e fino ad oggi la sola donna, a raggiungere un tale potere e una tale rilevanza – e fosse più determinata di tutti gli uomini che l’hanno preceduta. Nel corso degli anni Ottanta – la decade più turbolenta di tutte -, sembrò che avesse inventato se stessa come un personaggio da fumetto, quella “Lady di ferro” risoluta, incrollabile e indisponibile a rivedere le sue decisioni su ogni questione, e che dichiarava non esserci alcuna alternativa ad ogni sua proposta.



La sua determinazione nel perseguire la sua visione delle cose, la sua filosofia – comunque ora la si voglia chiamare – sembrava a volte favorire il disastro in virtù del suo rifiuto di adattare o correggere il particolare meno rilevante delle sue affermazioni iniziali. Su diversi tipi di questioni – gli scioperi della fame dei repubblicani irlandesi, la guerra delle Falkland, lo sciopero dei minatori – spesso faceva mostra di esistere semplicemente per ripetere quello che aveva già detto: che non ci sarebbe stata alcuna resa alla tirannia, al terrorismo o al ricatto morale. Poiché la politica è l’arte del possibile, il che implica processi di negoziazione, si ritenne fin dalla prima fase della sua premiership che queste posizioni fossero o tattiche o retoriche. Ma, situazione dopo situazione, la signora Thatcher ci mostrò che era seria. E che non era la donna delle svolte. Gradualmente, ciò che era sembrato l’atteggiamento di una donna aspra divenne qualcosa di più: un persona genuinamente risoluta, le cui prospettive in evoluzione si erano tramutate in principi e non erano, perciò, materia negoziabile. 



Queste reazioni di Margaret Thatcher fecero sì che l’iniziale compiacenza delle generazioni di sinistra emergenti, scatenate nella cultura dalle rivoluzioni degli anni Sessanta, si trasformassero in qualcosa di simile a – e a volte anche oltre – l’odio.  “Thatcheriana”, allora, era l’appellativo peggiore che si sarebbe potuto dare a qualcuno, un motto retorico abbastanza vuoto, che non aveva in realtà bisogno di trovare fondamento nella sostanza di alcuna idea o narrativa politica. Bastava il pregiudizio.

La signora Thatcher divenne il bersaglio della derisione e degli attacchi violenti di un’intera nuova generazione di teorici, commentatori, comici, musicisti britannici e, sì, di femministe; queste ultime consideravano la sua durezza come un tradimento dei valori femminili (era, dicevano, un uomo sotto mentite spoglie). Eppure lei non si piegò. Infatti, almeno in pubblico, sembrava felicemente inconsapevole del risentimento, così spesso di natura personale, nutrito verso di lei.



Il suo attacco violento verso il sindacalismo militante, il trattamento implacabile riservato ai minatori in sciopero, la sua insistenza nel mobilitare massicce risorse militari per difendere un minuscolo e dimenticato terriorio britannico nel sud Atlantico, la sua apparentemente insensibile indifferenza per le sorti degli esponenti dell’Ira in sciopero della fame – tutte queste vicende alimentarono il nostro senso crescente che questa donna fosse una sorta di potere oscuro, priva di qualità quali compassione e tenerezza normalmente associate alla femminilità. Ma tutto questo dire sembrava passarle sopra.

Per capire la Thatcher, dobbiamo indagare a di sotto degli strati superficiali dell’ideologia. Era una donna sulla quale si era posto il peso di una grave responsabilità e che di natura prendeva la responsabilità tremendamente sul serio. Quando entrò al numero 10 di Downing Street per la prima volta, nel maggio 1979, si vide gravata della responsabilità di salvare una Gran Bretagna sull’orlo della bancarotta e della rovina, lacerata da un decennio di scioperi, di declino economico e di impotenza politica. La Gran Bretagna era stata paralizzata da due decenni di socialismo zoppicante, di sindacalismo malsano e dall’eredità di politiche abitative e di welfare disastrose. Gli inglesi, bastonati dagli scioperi e dai blackout, dopo aver visto montagne di rifiuti accumularsi nelle strade, erano sull’orlo della disperazione. 

In queste circostanze, la signora Thatcher sembrò decidere che non poteva semplicemente assumere l’incarico di primo ministro e continuare il gioco della politica così come era andato avanti nei vent’anni precedenti, con una destra e una sinistra impegnate semplicemente in una specie di gioco delle sedie che legittimava entrambe ad esistere e ad avere una ragion d’essere, ma anche ad abrogare la responsabilità ultima della guida della società britannica. Innanzitutto, ciò che possiamo dire di lei è che è stata una donna che ha rifiutato di avere il potere senza usarlo.

La Thatcher per di più giunse nel momento in cui la televisione era diventata il fattore discriminante nell’impegno e nel discorso politico. L’uomo politico non era più una persona celebrata da una decina o da un centinaio d’altri, ma un’auto-creazione ingigantita da milioni di cittadini. La Thatcher era circondata e consigliata da persone che avevano capito le implicazioni di questo fatto, e che la persuasero a cambiare se stessa con lo scopo di presentare un’immagine e una personalità pubblica a persone la cui disperazione per l’inettitudine dei politici si sposava, fino a un certo punto, con un desiderio di personalità politiche ben chiare che esprimessero idee semplici e ben elaborate.

Questi sono stati i fattori chiave che hanno dato vita alla Thatcher, e in parte spiegano perché ha finito per essere così amata da una significativa minoranza del pubblico britannico. Ma è un errore vederla come una completa invenzione. Il suo personaggio pubblico era costruito, sì, ma la donna all’interno era, da ciò che sappiamo della sua personalità individuale, una donna di forte carattere, con profonde convinzioni e, soprattutto, questo irremovibile senso di responsabilità. In un tempo in cui i valori cedevano il passo al relativismo postmoderno, lei andò senza giustificarsi nella direzione opposta. 

È notevole, in retrospettiva, che il suo mandato a Downing Street sia coinciso così da vicino con i due periodi di presidenza Usa di Ronald Reagan, che venne visto come il suo principale alleato ideologico nel mondo. Ma anche qui ci fu un po’ la stessa incomprensione. L’ideologia arrivò dopo, nella forma di un’apparenza esteriore. In realtà, la relazione venne forgiata dalla comune visione e dalle comuni esperienze dei due leaders, entrambi i quali erano gravemente preoccupati dall’implosione dei valori che c’era nel mondo e dalla evidente incapacità dei politici di non riuscire più a sostenere una convinzione personale di fronte ad una cultura che imponeva alla democrazia di “vendere” al pubblico ciò che il pubblico era stato già persuaso a credere.

Entrambi, sia Reagan che la Thatcher, si opposero a questa tendenza, e con un risultato considerevole, se consideriamo il ruolo giocato da entrambe le figure, insieme a papa Giovanni Paolo II, nell’abbattere il Muro di Berlino e nel porre fine alla Guerra fredda. Si può invece addebitare al rapporto instaurato dalla Thatcher con Reagan la misura − forse esagerata in reazione agli eccessi della sinistra che venne chiamata a espungere dalla cultura britannica − cui giunse la Lady di ferro nel trovare con Reagan uno scopo comune; in un modo che poteva ultimamente recare danno al mondo almeno quanto ciascuno di loro, o entrambi, ne trassero vantaggio. Dobbiamo ammettere che le due forze combinate del thatcherismo e dell’economicismo reaganiano furono centralmente responsabili di aver portato il mondo sulla via neoliberale che creò il boom degli anni Novanta e Duemila, facendo sorgere quell’individualismo senza vincoli, quel consumismo e quella finanza speculativa di cui ci siamo in tempi più recenti amaramente pentiti. 

Si ritenne che la Thatcher sarebbe stata la “prima” di molte leader femminili delle nazioni occidentali, invece rimane un’eccezione. Nel tempo del sentimentalismo Margaret Thatcher fu una creatura di pensiero ed azione vincenti su sentimento ed emozione. “Chiedetemi che cosa sto pensando” − soleva dire − “non quello che sto sentendo”. In questo sembrava sicuramente dar ragione al pregiudizio femminista che la etichettava come un uomo in abiti femminili. Sopratutto il suo contributo al pensiero pubblico fu l’insistenza sulle virtù di ragione e risolutezza, due attributi che sembrarono svanire in un nulla politico nel momento in cui nel ’90 se ne andò da Downing Street per l’ultima volta.