Confesso che nell’apprendere la notizia della morte del Generale Videla il primo pensiero che mi è passato per la mente, visti anche i tempi e la situazione attuale, è stato quello di chiedermi se l’Argentina avesse imparato qualcosa dalla decade di una dittatura genocida  (di cui Videla fu il simbolo predominante)  tra le più feroci della storia dell’umanità. La storia dell’Argentina è stata molto spesso scritta col sangue, epilogo di una nazione che, come tante nell’America Latina, nacque con gli ideali dell’Illuminismo, i suoi cambi radicali ispirati dal vento di una Rivoluzione, quella Francese, che nel sovvertire l’ordine monarchico costituito terminò con una dittatura, quella napoleonica, con un cammino che poi venne tristemente replicato con la Rivoluzione d’Ottobre in Russia.



La particolarità di quest’angolo remoto del Sudamerica consta nel fatto di essere stato teatro di una emigrazione grandissima, vista la sua immensa  estensione e la mancanza di una cultura autoctona di riferimento paragonabile a quella di altri paesi latinoamericani. Qui non c’è mai stata osmosi, ma solo distruzione portata non solo per il processo di nascita e sviluppo della nazione e la sua definizione di governo tra federalismo e  unitarietà guidata da Buenos Aires, fatto protagonista di infinite guerre civili, ma è poi proseguita con la distruzione sistematica delle entità indigene che popolarono il Paese prima della sua scoperta, etnie che più o meno pacificamente vivevano in contatto tra loro creando una situazione molto simile a quella degli agglomerati indigeni del Nord America. Distruzione che prese il nome singolare di “Guerra del Deserto” alla conquista dell’immenso e fertile territorio che si estendeva fino ai limiti del Continente.



Grandi latifondi si appropriarono di queste terre e, visto che l’indio ormai era quasi scomparso, ecco iniziare il processo immigratorio che è continuato quasi ininterrottamente fino alla seconda metà del secolo scorso: con esso arrivano dall’Europa pure gli ideali che permeavano molti di coloro che fuggirono dalla fame provocata in gran parte dalla barbarie della Rivoluzione Industriale e anche le continue guerre. Nobili ideologie che però contrastavano fortemente con la mentalità dell’aristocrazia terriera argentina… ed ecco allora le armi rivolgersi nella repressione di questi movimenti, che con molte difficoltà riescono a svilupparsi e a portare alla nascita di partiti. Ma per moltissimi emigranti l’unica via da seguire è quella dell’esilio, attraversando il Rio della Plata per stabilirsi in Uruguay. Che difatti sotto questa spinta portata da loro diventa il faro della democrazia, e non solo in Sudamerica : sotto la Presidenza del giornalista José Battle de Ordonez, a cavallo tra il 1914 e il 1919, si produssero cambiamenti politici all’avanguardia non solo per quell’epoca, quali la giornata di lavoro di 8 ore, il diritto alle ferie, l’istruzione e l’assistenza sociale, una legge sul divorzio che include anche la volontà della donna.



In Argentina tutto ciò, nonostante la nascita e il proliferarsi di partiti quali quello socialista, comunista e radicale, e la presenza al loro interno di figure storiche quali quella di Hipolito Yrigoyen e Alfredo Palacios, deve attendere molto tempo e diventerà realtà nell’unico modo possibile (e anche unico esempio della Storia) con l’ascesa di Juan Domingo Peron… un militare messo al potere dalla classe operaia.

Il movimento peronista, complice anche un’Europa distrutta dalla Seconda guerra mondiale, porta l’Argentina a godere di uno sviluppo senza precedenti, fenomeno dovuto alla grande potenza del settore agricolo e ai suoi immensi allevamenti. Progresso, conquiste sociali quindi, ma a prezzo di una dittatura assoluta, dove il pensiero è uniformato e quello avverso al potere bandito. Sebbene ci siano altre ragioni che si possono individuare nell’enorme potenza economica che rischiava di contrastare lo sviluppo statunitense nell’area, e nell’allineamento di Peron alla “terza via” sostanzialmente equidistante dal dualismo Usa-Urss, il colpo di Stato (l’ennesimo) del 1955, chiamato  “revoluccion libertadora” e gestito da un ristretto gruppo di militari appoggiati dagli Usa, venne proclamato (lo dice la denominazione stessa) in nome di una “libertà” perduta. Ma questa operazione ha costituito uno dei più clamorosi errori nella storia Argentina, perché a causa della crisi economica di quegli anni  e della sfrenata statalizzazione imposta dal regime, Peron sarebbe caduto da solo perché iniziava a venir meno proprio l’appoggio popolare che gli aveva garantito il successo. Invece così un fenomeno politico che doveva passare alla storia si è trasformato in un martire che, benché Peron fosse esiliato e il partito coscritto, essendo legato a un’epoca aurea, ha vieppiù moltiplicato i suoi adepti, rimanendo una forza politica di grande importanza e seguito.

Quando, nel 1973, il peronismo poté presentarsi alle elezioni le vinse, e il Presidente eletto, Campora, affettuosamente chiamato “El Tio “ (lo zio) dopo soli 49 giorni dalla sua elezione, cedette il potere al Generale, rientrato dall’esilio spagnolo. Ma il Peron rientrato in Patria non era per niente simile a quello che era stato costretto a lasciarla: la sua scelta di escludere la sinistra montonera del movimento peronista, nel famoso discorso del 1 maggio del 1974, fu la miccia che fece scoppiare la tragedia.

La decisione dei montoneros di passare alla lotta armata, le loro azioni guerrigliere che misero a soqquadro la vita del Paese, provocarono una guerra civile con numerosi morti innocenti che scatenarono la reazione di ampi strati della popolazione. La contemporanea morte di Peron, la debolezza politica della moglie Isabelita che gli successe, unita ai suoi errori giganteschi e l’ascesa all’interno del potere dell’Alleanza Anticomunista Argentina promossa dall’ex maggiordomo di Peron, il sinistro Lopez Rega, unitosi alla influentissima Loggia P2 e ai suoi annessi non solamente politici, provocarono il colpo di Stato del 24 marzo del 1976 con l’instaurazione della prima delle quattro giunte militari e l’inizio del denominato “Processo di Riorganizzazione Nazionale” che ha avuto in Videla il suo protagonista principale.

È inutile ripetere quanto successe in quella decade, della  quale si è parlato tantissimo, scritto e dibattuto  altrettanto. Vale però la pena ricordare che le proteste più accanite nella società argentina si sono avute solo con il ritorno della democrazia e la Presidenza di Alfonsin che cercò in tutti i modi di affrontare l’immenso fardello di problemi che la dittatura gli aveva lasciato: un Paese in una bancarotta abissale, una ricostruzione politica dalle fondamenta senza avere più un’intera generazione scomparsa e anche un passato genocida da giudicare. Di certo la gran parte della popolazione non l’aiutò, anzi favorì la sua destituzione, avvenuta con le elezioni del 1989, a opera del peronista Carlos Menem con il primo passaggio di consegne democratico della storia Argentina.

L’illusione del ritorno del peronismo e dei tempi d’oro fu però di breve durata e aprì le porte al default del 2001, dopo un decennio vissuto in un regime neoliberista che ha distrutto molti settori vitali dell’economia del Paese, per passare poi all’epoca del kirchnerismo, altro prodotto peronista, le cui attuali vicissitudini stanno portando il Paese all’ennesimo disastro che i lettori de Il Sussidiario conoscono molto bene.

E pensare che altri regimi dittatoriali, una volta terminati, hanno portato le nazioni che li hanno subiti ad uno sviluppo invidiabile, dovuto principalmente a un fattore comune ed importantissimo: l’instaurare un dialogo veramente democratico dove chi la pensa in modo diverso non è un nemico da eliminare (nel corso dei decenni con le armi, ora con l’economia di stampo nazionalpopolare sempre più simile a un assolutismo monarchico). Italia, Spagna, Cile e Brasile hanno saputo risorgere e progredire in nome della vera democrazia. L’Argentina purtroppo no.

E allora mi son chiesto: a cosa sono serviti dieci anni di regime genocida? Poi ho pensato alle enormi manifestazioni che hanno contraddistinto questi ultimi due anni e soprattutto, accendendo la televisione e la radio, ho sentito che questa è la domanda che si fanno in tanti. Segno che, forse, siamo veramente vicini a un cambio atteso da più di trent’anni.