Procede, pressoché nel silenzio, la campagna elettorale per le presidenziali in Iran. Il 14 giugno si concluderà l’era di Mahmood Ahmadinejad. Ma, per il momento, i presupposti non preludono ad un cambiamento di impostazione. La competizione, anzitutto, è stata ristretta a soli 8 candidati dal Consiglio dei Guardiani, l’organo costituito da giuristi religiosi. Di questi otto, oltretutto, due hanno mollato: Mohammad Reza Aref, unico candidato riformista, è stato convinto dall’ex presidente Khatam; Gholam-Ali Haddad-Adel, ex presidente del Parlamento iraniano, sembra invece che abbia mollato per evitare la dispersione dei voti. Non è escluso che nei prossimi giorni arriveranno nuovi abbandoni. Come se non bastasse, i due candidati di opposizione, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Kharoubi, sono costretti ai domiciliari. Non c’è stato, nei loro confronti, alcun processo, ma una disposizione sommaria di detenzione. Tutte le speranze di un cambiamento reale risiedono, a questo punto, in Hassan Rohani, 65enne religioso sciita, già a capo dei negoziati per il nucleare da usare per scopi non bellici. Ha dichiarato che vuole instaurare un clima con l’occidente più disteso, e concedere maggiori libertà ai cittadini. Le speranze ricadono su di lui perché tutti gli altri candidati rimasti fanon parte della cerchia ristretta della guida suprema della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ali Khamenei, cui la costituzione assegna poteri di gran lunga superiori a quelli del presidente eletto.



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