Ieri in Iran, per consentire il voto anche ai molti elettori che all’ora prevista per la chiusura erano ancora in fila fuori dei seggi, le urne delle elezioni presidenziali sono state tenute aperte per cinque ora in più del previsto, fino alle undici di sera, e il loro esito verrà reso noto entro le successive ventiquattro ore. 



Mentre scriviamo non si sa dunque ancora se il nuovo presidente sarà il “moderato” Hassan Ruhani o uno degli altri cinque candidati, tutti definiti “conservatori”, fermo restando che questi termini nel  contesto dell’odierno Iran hanno un senso più che mai approssimativo. In quel curioso miscuglio di autoritarismo e di democrazia che è la Repubblica Islamica Iraniana ieri si votava per eleggere chi succederà al presidente Mahmud Ahmadinejad che, giunto al termine del suo secondo mandato, non è più rieleggibile. 



Quale che ne sia l’esito, tali elezioni segneranno una svolta in Iran. In sede di Unione Europea si potrebbe perciò cogliere l’occasione dell’uscita di scena di Ahmadinejad per tentare un disgelo dei rapporti con l’Iran anche trovando il modo di aiutarlo a liberarsi dall’ingombrante “tigre di carta” costituita dalle sue maldestre pretese nucleari. Ciò assume ulteriore attualità alla luce delle attuali tensioni in Turchia, Paese con cui l’Iran condivide un lungo tratto di frontiera terrestre. Quando dall’Europa si guarda alla Turchia si pensa troppo a Istanbul, Adrianopoli, Smirne e dintorni. Con tutta la comprensione e anche la simpatia che si può avere, soprattutto in questi giorni, per le speranze dei turchi europei della regione del Bosforo, nonché anche altrove per il disagio del vivace ma tuttora esiguo ceto medio urbano, la Turchia in sostanza è Anatolia e campagna, non Bosforo e città. 



Pertanto, come già dimostra in nuce l’esperienza di successo del Kurdistan iracheno, fortunato crocevia de facto dell’export-import fra i tre Paesi, da uno sblocco e quindi da una crescita consistente dei rapporti tra Turchia, Iran e un Iraq finalmente stabilizzato può venire un influsso fortemente positivo alla soluzione di tanti problemi che oggi in Medio Oriente vanno altrimenti a finire in “primavere” cui poi segue l’inverno. 

In questo quadro la fine dell’isolamento internazionale dell’Iran è un obiettivo da perseguire con tutta la tenacia che merita. Certamente si tratta di un obiettivo non facile. Caso unico al mondo, a norma di una Costituzione entrata in vigore nel dicembre 1979, in Iran le istituzioni politiche sono ufficialmente all’ombra di un’autorità religiosa, la Guida suprema (Rahbar), che dal giugno 1989 è l’ayatollah Mohamed Ali Khamenei. Questi, nominato a vita da un’Assemblea di 86 dottori di dottrina islamica eletti dal popolo, opera anche avvalendosi di un Consiglio dei Guardiani della Costituzione e della Sharia (Legge coranica) composto di dodici persone da lui stesso nominate. 

Il potere della Guida suprema è in pratica assoluto, e in forza di esso Ali Khamenei ha escluso dal novero dei candidati alle odierne elezioni l’ex-presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, un “moderato” probabilmente in grado di raccogliere voti anche dalle file di movimenti di opposizione non rappresentati in Parlamento; voti che molto probabilmente gli sarebbero valsi l’elezione alla presidenza. Quando però da ambienti cosiddetti moderati è stata perciò lanciata l’idea di boicottare le elezioni, lo stesso Rafsanjani è intervenuto pubblicamente invitando invece i propri sostenitori a non disertare le urne ma a votare Hassan Rohani, l’altro “moderato” rimasto in lizza.

D’altro canto, fatto curioso ma vero, pur se all’interno di uno spazio politico appunto definito dalla Guida suprema, le elezioni si svolgono poi in modo sostanzialmente libero. I circa 50 milioni di iraniani chiamati alle urne possono realmente scegliere tra sei candidati di vario orientamento, chi più o meno “conservatore” e chi più o meno “moderato”, nessuno dei quali può vantare di essere il candidato ufficiale unico di Ali Khamenei. Entro i limiti di tale contesto l’esito delle elezioni non è irrilevante. Dal suo esito la Guida suprema potrà capire, e non è cosa da poco, fino a dove potrà e dovrà tirare la leva dell’intransigenza e rispettivamente quella della flessibilità innanzitutto sulla grande questione del programma nucleare, massimo motivo di frizione fra Teheran e l’Occidente,  e in primo luogo gli Stati Uniti. 

Impegnandosi a fondo in tale programma soprattutto per ragioni di orgoglio nazionale, e per lo stesso motivo schierandosi clamorosamente contro Israele, il presidente uscente Ahmadinejad ha infilato il Paese in un vicolo cieco. Mentre infatti da un lato l’Iran, peraltro grande produttore di petrolio, non ha il grado di sviluppo tecnico-scientifico necessario per potersi dotare di un’industria energetica nucleare davvero efficiente e autonoma, dall’altro questo tentativo (con il sospetto che Teheran mirasse al suo uso non solo pacifico ma anche militare) gli è costato attriti, sanzioni economiche da parte dell’Occidente e atti di guerra “subacquea” da parte di Israele, tra cui gli omicidi mirati di molti dei suoi migliori tecnici e scienziati nucleari. 

Siamo poi al paradosso di uno dei maggiori produttori mondiali di greggio che deve importare benzina e altri prodotti raffinati poiché ha una capacità di raffinazione insufficiente a coprire la domanda del proprio mercato interno. 

La realtà è che il gelo dei rapporti tra l’Iran e l’Occidente non conviene a nessuna delle due parti in causa. Non all’Iran che per ammodernare e riequilibrare la propria struttura economica ha bisogno di tecnologie e macchinari di qualità occidentale, e non all’Occidente poiché l’unico effetto pratico di rilievo delle sanzioni è stato quello di trasformare la Cina nel primo acquirente di idrocarburi iraniani (seguita peraltro a breve distanza dal Giappone).

Adesso, il che è molto importante, la Guida suprema ha avocato a sé il “dossier” della questione nucleare. Quindi compito del nuovo Presidente sarà innanzitutto quello di riequilibrare e risanare l’economia del Paese che, al di là  delle sue maldestre ambizioni nucleari, oltre a non essere in grado di ricavare dal proprio abbondantissimo petrolio tutta  la benzina di cui ha bisogno, non è nemmeno autosufficiente da un punto di vista alimentare.

L’Italia ha un’antica storia di buoni rapporti economici con l’Iran che risale ai tempi dell’Eni di Enrico Mattei, tanto da essere tutt’oggi il primo importatore occidentale di greggio iraniano. Ci segue a distanza la Francia, mentre sul lato delle esportazioni è al primo posto la Germania, il valore del cui export verso l’Iran è circa il doppio del nostro. Roma, Parigi e Berlino avrebbero dunque rispettivamente buoni motivi per prendere iniziative una volta tanto concordi in vista del disgelo dei rapporti tra Iran e Occidente tenendo fermo tutto ciò che si deve tener fermo, ma nella prospettiva  non dello scontro bensì della riconciliazione.