Il giudice federale con competenza elettorale, María Servini de Cubría, ha emesso la prima sentenza contro la riforma che – auspicata eufemisticamente come la “democratizzazione della Giustizia” – il governo di Cristina Kirchner ha promosso attraverso un pacchetto di differenti progetti legislativi, convertiti rapidamente in legge dal Parlamento che ancora controlla.



La sentenza è stata impugnata dal governo attraverso il “per saltum”, un ricorso che permette di abbreviare il processo saltando la seconda istanza per facilitare l’approdo diretto alla Corte Suprema, la quale già ha ammesso formalmente di voler trattare la causa, in modo da dare un pronunciamento di carattere definitivo.



La legge in questione ha modificato il sistema per eleggere il Consiglio della Magistratura, organo incaricato di designare e destituire i giudici, oltre ad avere funzioni amministrative che hanno a che vedere con il funzionamento quotidiano del potere giudiziario, creato con l’ultima riforma costituzionale del 1994.

Il Consiglio aveva, fino alla riforma voluta dall’attuale governo, tredici membri: tre rappresentanti dei giudici, tre della Camera dei Senatori, tre della Camera dei Deputati, due degli avvocati, uno nell’ambito accademico e uno del potere esecutivo nazionale.

Tutti venivano eletti dai loro pari attraverso una votazione, mentre l’ultimo mediante la designazione dal Presidente della Nazione. È vero che questo organo mostra gravi problemi di funzionamento, visto anche l’enorme ritardo e gli ostacoli esistenti, per esempio, per designare i giudici che occupino i numerosi posti vacanti (conseguenza del confronto tra interessi politici e di settore che sono in gioco al suo interno), cosa che si ripercuote inesorabilmente nell’amministrazione della giustizia, che in Argentina si caratterizza da sempre per essere irritantemente lenta.



La legge approvata recentemente dal Congresso, grazie alla maggioranza parlamentare kirchnerista, con scarso dibattito previo dentro e fuori dal recinto legislativo, aumenta il numero di membri del Consiglio e la sua forma di elezione: ora sono 19 in tutto, grazie all’aggiunta di un consigliere in più per gli avvocati e cinque in più provenienti dall’ambito accademico.

Tuttavia, queste categorie di consiglieri, come anche i rappresentanti dei giudici, non saranno elette dai loro pari, ma dai cittadini nel corso delle elezioni generali. I candidati consiglieri dovranno inoltre presentarsi nelle liste dei partiti politici.

Ciò significa, sebbene in maniera indiretta, politicizzazione della Giustizia e snaturalizzazione del sistema creato costituzionalmente.

Appena conosciuta la sentenza di primo grado che ora la Corte Suprema sta per esaminare, un deputato ha protestato chiedendo come fosse possibile dichiarare incostituzionale una legge votata dal Congresso attraverso la maggioranza dei suoi membri. Una dichiarazione di questo tenore rivela, quanto meno, una certa ignoranza.

Non c’è bisogno di aver letto Maurice Duverger per sapere che in un sistema repubblicano, cioè in un regime politico con piena divisione dei poteri, la funzione dei giudici – oltre che amministrare la giustizia tra i cittadini – è esercitare il controllo sui governanti conformemente al principio di legalità e sul Parlamento mediante il controllo della costituzionalità. L’Argentina adottò nella sua Costituzione il sistema repubblicano, rappresentativo e federale di governo. È una democrazia liberale e repubblicana, presidenziale sul modello degli Stati Uniti.

La Carta Magna è, insieme ai trattati internazionali, la legge suprema della Nazione, e tutte le leggi, i decreti e i regolamenti dettati dai poteri pubblici devono rispettare la Costituzione.

I giudici sono incaricati di esercitare questo controllo di costituzionalità.

Il potere esecutivo governa, quello legislativo legifera e quello giudiziario controlla.

Se quest’ultimo sbaglia, l’intero edificio si distrugge. Un governo può essere eletto, anche attraverso un voto popolare schiacciante, così come il Parlamento, ma né uno, né l’altro possono fare quello che vogliono: la Costituzione sarà sempre un limite all’appetito del potere, semplicemente perché è il contratto sociale sul quale si basa la convivenza pacifica degli argentini.

È quello che insegnano tutti i manuali di Educazione civica nelle scuole. L’autore della protesta non è così ignorante: è solo incappato in una gaffe che rivela lo spirito autoritario del quale è impregnato il governo.

Chiariamolo una volta per tutte: i governi populisti di cui si è popolata parte dell’America Latina, con il Venezuela di Chavez come stella polare, sono democratici ma non molto repubblicani.

Non osano superare il confine della dittatura, almeno formalmente, ma sognano tutto il potere pubblico nelle loro mani. Per questo si sentono più forti con le crisi, sempre che non siano terminali: necessitano dello stato di emergenza permanente per giustificare le loro misure sempre straordinarie, nelle quali la legalità viene messa da parte e nessuno li molesta nell’esercizio del potere.

E se un determinato contesto internazionale, economico e/o sociale fa ritornare la situazione favorevole a una fase di crescita, di pace, di normalità politica per il popolo, loro stessi fanno in modo di metterla in pericolo con misure insolite per poi ergersi a salvatori mediante l’azione interventista dello Stato.

Questo è il giochino, la messa in scena che si ripete ogni volta davanti ai nostri occhi.

Le conseguenze di un’azione politica come quella descritta non si limitano unicamente alla crisi, all’inflazione, alla perdita di lavoro, alla mancanza di investimenti, al deterioramento educativo, all’esclusione sociale, alla fame, alla violenza, alla delinquenza, all’impunità, alla corruzione, all’assenza di accesso alla cultura e a tutti i mali sociali che potremmo continuare a elencare, mentre giorno dopo giorno veniamo a conoscenza dei furti dell’erario pubblico che riempiono i buchi del governo come se fosse un groviera e i cui responsabili si rifugiano sotto la protezione del massimo livello dello Stato.

Il degrado delle relazioni politiche (dello Stato con i cittadini, dei poteri dello Stato tra loro) ha come conseguenza inevitabile la frattura della coesione culturale dei cittadini tra di loro: i litigi tra vecchi amici, tra i membri di una stessa famiglia sono tornati ai tempi del manicheismo dell’ideologia imperante, come non succedeva da trenta anni.

Tutto è “K”o “anti-K”, tesi infuocate dal potere in ogni discorso, anche se i media ufficiali presentano sempre Cristina come “la presidente di quaranta milioni di argentini”.

La sentenza della Corte Suprema che si avvicina può essere un punto di inflessione per la situazione istituzionale argentina.

Da come si inclinerà la bilancia, e dai fondamenti con cui magistrati caricheranno uno dei due piatti, dipende la sopravvivenza della Repubblica.

Così semplicemente, così drammaticamente.

In fin dei conti stiamo nella terra della passione che vibra a ritmo di tango