Questo è il pianto della Turchia, di giovani, donne e anziani che sono scesi in piazza per difendere una visione di Stato laico che il potere di Erdogan sta mettendo sempre più in discussione. Due anime, quelle turche, difficili da conciliare, come lo stesso ministro degli Affari Esteri, Emma Bonino, ha ammesso. Una divisione profonda che non è solo tra città e campagna, come molti analisti tendono a semplificare. Nella stessa Istanbul, camminando a poche centinaia di metri dalle zone turistiche del Gran Bazar o della Moschea Blu, è possibile trovare un mondo molto differente, quello di Fatih. Qui la maggioranza della gente sta con il primo ministro Erdogan, qui i manichini dei negozi di abbigliamento femminili portano il velo, qui le luci di Baghdad Caddesi, la principale via dello shopping nel lato asiatico con i marchi internazionali come Mango o Zara, sono distanti anni luce.
È una divisione che va oltre dunque il classico “parte orientale e parte occidentale”. Si potrebbe pensare che la parte europea sia maggiormente laica, mentre quella asiatica sia più tradizionalista e con una presenza maggiore della religione nella vita di tutti i giorni. Non è così. Fatih si trova appunto nella parte europea, mentre Baghdad Caddesi nella parte asiatica. La Turchia, così come Istanbul, è un mix difficile da conciliare.
Nel discorso alla piazza di Erdogan tenuto il fine settimana scorso nella stessa Istanbul “ripulita” da quelli che il primo ministro ha voluto definire “terroristi”, il quartiere di Fatih è stato preso ad esempio dallo stesso leader come rappresentativo dei valori che lui stesso porta avanti in questa nuova Turchia. Un Paese nuovo, che sotto il potere del leader del Partito per lo sviluppo e la giustizia (Akp), ha conosciuto un forte sviluppo economico. Dietro a questi successi, tuttavia, si celava una visione di Stato profondamente diverso da quello che Ataturk Kemal, il “padre della patria turco” aveva in mente.
Erdogan, lentamente ma inesorabilmente, ha voluto cambiare il Paese, partendo anche dai piccoli atti simbolici, o almeno così sembravano all’Europa e agli altri paesi storicamente alleati di Ankara. Quello che a Fatih era normale vedere, le donne con il velo, non era possibile vederlo nei luoghi pubblici o nelle funzioni dello Stato. Fu la moglie del presidente della Repubblica Gul, da alcuni impropriamente visto come un liberale, a essere la first lady con il velo. In Turchia ci fu una forte protesta dei kemalisti, che vedevano in questo atto il processo di un cambiamento lungo e pericoloso, ma in Europa le diplomazie si tappavano gli occhi dietro al miracolo economico turco.
Tornando tra le vie vicino a Taksim, nella frequentata e giovane Istiklal Caddesi, è normale imbattersi in gruppi di studenti universitari tra i locali all’aperto che diffondevano a tutto volume il pop moderno turco, come quello di Sertab Erener, che vinse qualche anno fa il festival europeo della musica di Eurovision. E in questi locali è normale fumare il narghilè e al tempo stesso bersi una birra in compagnia. È la ragione per cui il divieto di vendere alcool voluto da Erdogan a fine maggio è una delle cause scatenanti della protesta. È stata la classica “goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Questi giovani sono stati definiti dal premier come alcolizzati, facendo crescere la protesta.
E dopo giorni di proteste e dopo lo sgombero di Gezi Park con l’utilizzo massiccio di spray urticanti e lacrimogeni, ieri nella piazza Taksim, laddove si trova il monumento ad Ataturk, è avvenuta l’ennesima e singolare protesta. Un giovane è rimasto immobile davanti alla statua del “padre della patria” turco per diverse ore e piano piano si sono aggiunte altre centinaia di persone al suo fianco.
Immobili e fermi in segno di una Turchia laica. Un Paese che Erdogan vorrebbe muovere verso un islamismo che non può essere accettato da quella parte della popolazione turca che vuole mantenere il principio dello Stato laico. Un Paese che è vorrebbe rimanere immobile su certi valori conquistati quasi novant’anni fa, ma che al tempo stesso corre veloce economicamente.