Se avessimo parlato di ciò che sta accadendo oggi in Algeria, in concomitanza con la ormai acclarata impossibilità a governare di Bouteflika, saremmo stati presi per pazzi. Pazzi perché illustri storici ed “esterofili da parata” hanno sempre ritenuto l’Algeria un paese stabile, in cui l’islamismo armato non esisteva più e nel quale l’arretratezza stava per cedere il passo alle riforme. 



Niente di più falso. Niente di più storicamente improbabile. Ma per chi non conosce bene l’Algeria dagli anni Novanta in poi, questo è un errore ricorrente, a maggior ragione se si sono sostenute le primavere arabe, che hanno portato al potere, come la mattanza algerina, le élites teocratiche e fondamentaliste che stanno trascinando sul baratro i paesi del nord Africa e stanno mettendo a ferro e fuoco la Siria. 



L’Algeria è in ostaggio da venticinque anni. Quando nel 1993 nasceva proprio in Algeria la Jamaa Islamiya, e in quella notte si dipanava il prossimo futuro del quadrante nordafricano in preda alle spinte estremiste, le carte erano già sul tavolo e oggi diventa difficile non fare il punto ripartendo da lì. Da quando tutte le sigle del fondamentalismo di matrice islamica si unirono per formare un sodalizio che ancora oggi va avanti sotto il nome Al Qaeda, da quando ogni speranza per il quadrante arabo scomparve e da quando, dopo la salita al potere di Bouteflika, l’islamismo algerino prese la via della conciliazione nazionale, iniziando, come hanno fatto i Fratelli musulmani dagli anni Venti in Egitto, la preparazione per la presa del potere. 



Mai come oggi siamo vicini a questo momento. Il giornale Al-Hayat ha intervistato Mohamed Hdeibi, portavoce del Movimento “Rinascimento Islamico”, l’erede designato del Fis (Fronte Islamico di Salvezza) e poi del Gia (Gruppi Islamici Armati) e dalle sue parole molte cose emergono. Alla domanda se l’Alleanza “Algeria Verde”, che oggi raggruppa tutte le sigle islamiche, ritenga che il trasferimento del potere scorrerà liscio in caso Bouteflika non dovesse presentarsi come candidato, e se il regime sta per ricorrere a un candidato consensuale con gli islamisti, dice: “Il governo è messo a dura prova: o salva l’Algeria da un futuro scivoloso, che sarà derivato da pratiche politiche del passato che eludevano la volontà popolare, oppure si consentirà all’Algeria di entrare in una nuova fase di stabilità, in cui le persone potranno praticare i loro diritti costituzionali. Il modo in cui le autorità hanno affrontato la malattia del presidente suggerisce che esse sono ancora dell’idea di ‘confiscare’ il diritto del popolo a determinare il futuro delle loro istituzioni. Coloro che pensano che la transizione del potere avverrà secondo la volontà del popolo sbagliano”. Due concetti risaltano in queste parole: “confiscare il diritto del popolo” e “nuova fase di stabilità”.

Di cosa parla Hdeibi? Con tutta probabilità, il portavoce dell’alleanza islamista fa un parallelo piuttosto chiaro con ciò che accadde fra il 1990 e il 1994, quando il Fis prese il potere in Algeria e lasciò poi al Gia il compito di massacrare la popolazione, assieme ai militari. Con il pretesto di voler salvare il Paese e di far tornare nelle mani del popolo la capacità decisionale a livello politico. E lasciando a terra 380mila anime per le quali nessuno è stato condotto alla sbarra all’Aja. Molti ci sono andati per molto meno. 

Tutto torna, dunque, con date e strategia di inserimento nel tessuto politico. Non a caso, peraltro, sempre Al-Hayat riporta la circostanza secondo la quale i Fratelli musulmani in Algeria stiano già portando avanti le proprie “primarie”, scegliendo il candidato alla presidenza per le elezioni della prossima primavera. L’era Bouteflika, con ogni probabilità, è finita ed è tutto interesse degli estremisti algerini mantenere lo status quo di sostanziale governabilità di piccolo cabotaggio, fino all’arrivo della campagna elettorale dei primi del 2014. 

Altro particolare da non sottovalutare è l’insistenza dei giornali algerini nel ricordare ogni singolo intellettuale, scrittore o giornalista caduto nella mattanza del terrorismo degli anni Novanta. Sfogliando El Watan o altri quotidiani, ricorre praticamente ogni giorno il ricordo di un caduto per la libertà. Da Mahfoud Boucebci, passando per Hafid Sanhadri e Djillali Liabes, e via andare fino a Tahar Djaout, di cui amo ricordare il suo testamento morale, contenuto nell’ultimo pezzo prima di essere trucidato: “Se parli muori, se non parli muori. Allora parla e muori”. La stampa algerina ha già capito. Sa cosa sta per arrivare. Ne sente il fetore nauseabondo. Probabilmente, se oggi fosse vivo, Djaout avrebbe denunciato a viso aperto che l’élite islamista algerina sta per lanciare l’assalto finale al potere. Ma quel coraggio, in Europa, i giornalisti non lo hanno più. In Algeria si può vivere di ricordi, ma nulla di più. La denuncia è un rischio al quale chi parla si espone. La terra rigurgita ancora il sangue di quelle donne e di quegli uomini massacrati. Le ombre di Algeri sono tornate.