A quasi dodici anni da quando nell’ottobre 2001 gli Stati Uniti intervennero in Afghanistan, tirandosi dietro la Nato, con l’obiettivo di spazzar via i talebani dalla faccia della terra, non soltanto costoro continuano a controllare buona parte del territorio del Paese ma Washington si è dovuta risolvere ad invitarli a pieno titolo a un tavolo di trattative per la soluzione della crisi afghana.
In tale prospettiva, in cambio di una loro presunta disponibilità a trattare anche con l’attuale governo afghano, hanno potuto aprire a Doha, capitale del Qatar, un lindo ufficio di rappresentanza. A questo ufficio hanno poi subito dato un profilo da missione diplomatica provocando perciò la reazione inviperita del premier afghano in carica, Hamid Karzai, eletto sotto la protezione della grossa guarnigione militare occidentale, cui come si sa anche l’Italia oggi partecipa, che da allora presidia l’Afghanistan: un presidio già costato all’Occidente migliaia di caduti (tra cui circa cinquanta italiani, e fra questi l’ufficiale dei bersaglieri ucciso pochi giorni fa) e spese enormi.
Si prevede, o meglio si spera, di poter ritirare tale corpo di spedizione alla fine dell’anno prossimo. Al momento a Doha si è ancora alle schermaglie sulla targa all’ingresso dell’ufficio e sulla bandiera che sventola sull’edificio che lo ospita, ed è difficile prevedere quando e se le auspicate trattative inizieranno. Gli Stati Uniti dicono di aver avuto serie assicurazioni sulla buona volontà dei talebani – che frattanto nell’arco di pochi giorni le grandi reti televisive americane hanno provveduto a trasformare da efferati tagliagole in rispettabili interlocutori – mentre Karzai non nasconde il proprio disagio e le proprie riserve per un’iniziativa che sta passando sopra la sua testa.
La sorprendente svolta rientra evidentemente nella complessa operazione di disimpegno dall’Afghanistan in cui Washington è impegnata anche in nome e per conto dei suoi alleati, Italia compresa. Quindi obiettivamente dobbiamo tifare per la sua buona riuscita. D’altro canto una volta che ci si è infilati in un pasticcio del genere non soltanto non è dignitoso ma neanche è possibile uscirne da soli. E’ pertanto fuori luogo invocare il ritiro unilaterale del contingente italiano ogni volta che qualche nostro militare in Afghanistan perde la vita, come ancora una volta qualcuno ha fatto di recente. Il ferimento, l’invalidità, la morte in azione sono uno specifico rischio connesso con l’attività militare. Essendo il ricorso alla guerra come “strumento di soluzione delle controversie internazionali” esplicitamente vietato dalla nostra Costituzione, l’ipocrisia ufficiale impone di definire le nostre missioni militari all’estero come “missioni di pace”.
Non di meno, tanto più essendo dei militari per mestiere, i nostri soldati sanno benissimo che in Afghanistan si sta in realtà combattendo una guerra, seppur una moderna guerra di “pacificazione” che implica anche iniziative volte a raccogliere la simpatia dei civili (come la costruzione di scuole, di dispensari medici e così via).
E ci vanno da volontari consapevoli di tutti i rischi che ne derivano. Quindi ferimenti, invalidità, morti di nostri militari in Afghanistan devono addolorarci ma non possono sorprenderci.
Tutto ciò premesso resta però intatta la domanda: perché mai gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan, e perché mai in un secondo tempo ci siamo andati anche noi? Sospettando (sospetto tra l’altro mai provato) che nel remoto Paese si nascondesse Osama Bin Laden, organizzatore del clamoroso attacco terroristico contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, Washington non sapendo come colpire il cavaliere mirò al suo presunto cavallo. Non riuscendo insomma a scovare Osama Bin Laden gli Usa attaccarono l’Afghanistan, sotto regime talebano dal 1996, anche se in realtà Osama Bin Laden molto probabilmente era già allora nascosto in Pakistan.
L’esperienza dimostrò poi ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che gli Stati Uniti sono una superpotenza militare in grado di invadere e occupare rapidamente un Paese in qualunque parte del mondo, ma che lo sconquasso politico-economico che ne deriva provoca fatalmente un’instabilità di lungo periodo le cui conseguenze negative sono infine un male maggiore di quello cui così si pretendeva di porre rimedio. La caccia al lupo non vale il danno dell’incendio di un’intera grande foresta. Nel 1997-98 il Cile riuscì a passare dalla dittatura di Pinochet alla democrazia senza ridursi in cenere. Sarebbe bello capire come mai, mentre allora gli Stati Uniti non si opposero a quella transizione negoziata e concordata, più tardi – dall’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia (qui nascondendosi dietro la Francia) – hanno sempre giocato la pessima carta dell’invasione a mano armata seguita da un presidio militare foriero di quei disastrosi squilibri politico-economici di lungo periodo di cui si diceva.
Nei limiti delle nostre forze, in quanto loro alleati dovremmo esigere che non lo facciano mai più. E se poi fosse, avremmo tutte le ragioni per preavvisarli che non saremo più disponibili a correre ad aiutarli a togliere le castagne dal fuoco.