Perché la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che ha dichiarato incostituzionale il Defense of Marriage Act, vale a dire la legge del 1996 che aveva circoscritto il matrimonio alle sole unioni eterosessuali, è stata presentata ed enfatizzata da molti media americani (e nostrani) come inevitabilmente, irrevocabilmente «progressista»? È come se ci trovassimo di fronte a una delle più evidenti manifestazioni dello «spirito» del nostro tempo, alla maturazione di un sentire sempre più comune all’interno dell’opinione pubblica. Tanto che anche le forti critiche a questa decisione finiscono inevitabilmente per essere rubricate come conservatrici, se non addirittura come reazionarie.
Naturalmente la questione risulta pesantemente condizionata dai contrasti di natura politica e ideologica (tot giudici liberal contro tot giudici conservatori) e dal peso delle lobbies più attive circa una sempre più radicale omologazione ed equiparazione dei diritti degli individui rispetto alle differenze di genere. Ma penso che la semplice opposizione tra questi due fronti non spieghi ancora adeguatamente la posta in gioco di una sentenza da più parti definita «storica» (quale che sia la valutazione, positiva o negativa, che se ne dà), e il senso del clamore che essa ha scatenato. La novità che in questa circostanza è venuta a galla, sta piuttosto nel fatto che è cambiato o sta progressivamente cambiando il significato di alcune parole decisive, le quali racchiudono e veicolano una concezione e un sentimento determinato di sé e del mondo.
Dal punto di vista di queste parole a me sembra che sia avvenuta una mutazione di non poco conto. Il progressismo di cui si ammanta la decisione della Corte sui matrimoni gay non è più sinonimo di libertarismo (come è stato di fatto a partire soprattutto dagli anni Settanta), quanto di un nuovo assetto borghese. Ad essere rivendicata non è la libertà di ciascuno nel progettare, costruire ed esprimere pubblicamente la propria scelta autonoma di vita, quanto la garanzia di poter regolarizzare in via di principio ogni possibile differenza di progetto esistenziale in un canone neutro a livello giuridico e istituzionale. Il rovescio esatto della medaglia, si potrebbe dire: dalla rivendicazione di diritti intesi come tendenzialmente assoluti (perché assoluta era la soggettività che essi esprimevano), e che per questo non tolleravano alcuna delimitazione da parte di un ordine culturale e sociale visto come soffocante, sino alla rivendicazione del diritto di poter disporre di istituzioni e leggi che permettano a quei diritti assoluti di stabilizzarsi, di istituzionalizzarsi, di diventare addirittura doveri sociali.
È interessante ad esempio leggere in questa prospettiva le dichiarazioni di un intellettuale gay-oriented come lo scrittore David Leavitt, che in un’intervista al Corriere della Sera del 27 giugno (p. 14) ha ammesso con molta onestà: «Negli anni 70 e 80 a molti gay interessava fare outing e vivere secondo [un] modello di liberazione e promiscuità sessuale», di fronte al quale il matrimonio restava «un’istituzione borghese per eterosessuali.
Ma forse eravamo come la volpe e l’uva: ci eravamo convinti di non averne bisogno perché non potevamo averlo». Ma poi, soprattutto «di fronte a una catastrofe sterminata come l’Aids molti gay si sono rifugiati in stili di vita più conservatori», fino a «diventare coppie e famiglie affiatate».
Ma c’è un secondo aspetto di questa mutazione antropologica e semantica, ed è che questo esito egualitarista-istituzionale dei diritti individuali si appella in definitiva a motivazioni «naturali» e «religiose», se non addirittura «evangeliche». E questo, paradossalmente, a dispetto dell’aspra polemica ingaggiata contro le presunte basi naturali attribuite tradizionalmente dalle Chiese al solo matrimonio tra un uomo e una donna in vista della procreazione di un terzo.
Basti rileggere a questo proposito le dichiarazioni del presidente Obama a commento – entusiasta e commosso – della decisione della Corte suprema (cito dal sito della Casa Bianca): «Il nostro popolo ha dichiarato che noi siamo stati creati tutti uguali – e uguale dev’essere anche l’amore con cui ci impegniamo gli uni con gli altri». L’eguaglianza creaturale viene tradotta nella uniformità dell’amore. Ma cosa vuol dire che quest’ultimo dev’essere «uguale» per tutti? Forse nient’altro che la misura dell’amore è il sentimento soggettivo, e dunque l’emozione reciproca, e che questo è del tutto sufficiente a renderlo un’istituzione matrimoniale (e patrimoniale). Come si concludeva il caldo tweet del Presidente fatto circolare contemporaneamente a queste dichiarazioni, love is love, l’amore è quello che è, senza alcun’altra «ragione» che il suo stesso feeling. Il carattere «naturale» del matrimonio gay è dovuto qui al semplice fatto che esso esprime la naturale uguaglianza di tutti gli individui. Tralasciando che, di fatto, la natura degli individui creati dice sì un’uguaglianza in ordine alla dignità e al valore del singolo, ma dentro delle precise e costitutive differenze.
Ma continuiamo ancora con le dichiarazioni presidenziali: «Su un tema delicato come questo, sappiamo che gli americani hanno una vasta gamma di punti di vista sulla base di convinzioni profonde. Perciò è vitale mantenere l’impegno della nostra nazione per la libertà religiosa». Il che vuol dire concretamente che la decisione della Corte «si applica solo ai matrimoni civili» e che questo «non cambia in nulla» il concetto di matrimonio fatto proprio tradizionalmente da queste istituzioni religiose. Insomma, coloro che vogliono attestarsi su una nozione religiosa di matrimonio devono poterlo fare tranquillamente, ma, appunto, questo dipende da opzioni di fede particolari, mentre la nozione standard, direi neutra, dell’istituto matrimoniale è un diritto per tutti, senza alcuna condizione che non sia la volontà di amarsi.
Infine, «Le leggi del nostro Paese si stanno approssimando alla verità fondamentale che milioni di noi americani conserviamo nel nostro cuore: quando tutti gli americani sono trattati come uguali – non importa chi sono o chi amano – siamo tutti più liberi». Appunto, è la verità che rende liberi, secondo il detto del Vangelo: e la verità è che tutti devono essere trattati ugualmente. Ma quando ciascuno di noi pensa a se stesso, che cosa pensa in verità? Solo di essere uguale agli altri? O più al fondo di questa uguaglianza (sacrosanta, beninteso) sta quell’irriducibile impronta personale che ognuno ha, o meglio «è» per se stesso? E non fa parte di questa irriducibilità il nostro essere maschi o femmine? O il nostro esser nati da un uomo e da una donna, da un padre e da una madre?
Ciascuno penso debba essere libero di amare chi vuole; ma non di essere ciò che non è, di negare la sua storia personale e la sua differenza specifica.