Vi sono due aspetti inquietanti nella vicenda dell’espulsione della signora Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni, Alua, rispettivamente moglie e figlia del dissidente kazako Muktar Ablyazov. Il primo è di ordine giuridico. L’espulsione viola sia il diritto interno che il diritto internazionale e, in particolare, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La giurisprudenza della Corte europea ha da tempo ricostruito una serie di limiti indiretti ai provvedimenti di espulsione e di allontanamento, molti dei quali sembrano applicabili a questo caso. Uno Stato parte della Convenzione ha l’obbligo di accertarsi, prima di consegnare un individuo ad un altro Stato, che in questo non venga praticata abitualmente la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un obbligo preventivo, che impone agli Stati parte della Convenzione di non esporre un individuo al rischio di essere sottoposto a tali pratiche, indipendentemente dalla circostanza che poi tale rischio si realizzi. Di conseguenza, è irrilevante la circostanza che uno Stato abbia ratificato delle convenzioni internazionali sui diritti umani o anche la circostanza che esso dia assicurazioni che il soggetto consegnato non venga sottoposto a pratiche inumane. Or bene, in tale circostanza, vi erano elementi sufficienti che avrebbero dovuto indurre alla massima cautela le autorità italiane.
È verosimile, inoltre, vi sia stata anche una violazione delle garanzie dell’equo processo, nonché dei limiti procedurali all’espulsione stabiliti dalla Convenzione. Le autorità italiane, prima di procedere all’espulsione, avrebbero dovuto mettere la signora Shalabayeva in condizioni di comprendere, anche mediante un interprete, i motivi del provvedimento e di far conoscere le proprie osservazioni. Né vi erano i gravi motivi di sicurezza che avrebbero potuto giustificare una deroga. La circostanza che il marito della signora fosse un dissidente politico ed avesse ottenuto lo status di rifugiato nel Regno Unito sarebbe stato un motivo sufficiente per comprendere la delicatezza della situazione e per valutare attentamente le richieste dell’ambasciatore del Kazakistan.
È verosimile che la vicenda abbia un seguito giudiziario, sia davanti ai giudici interni, civili o penali, sia innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che porrà lo Stato italiano in una situazione di penoso imbarazzo.
Dal punto di vista politico, le conseguenze della violazione degli standard elementari di tutela dei diritti dell’uomo sembrano anche più gravi. Il caso sembra confermare la tendenza degli organi dell’esecutivo a considerare che l’esigenza di mantenere buoni rapporti con Stati terzi, e di non interrompere fruttuose relazioni economiche, prevalga sull’esigenza di rispettare gli standards internazionali dei diritti fondamentali.
È una costante della politica estera italiana degli ultimi anni, ben simboleggiata dalle avvilenti giravolte rispetto al regime del colonnello Gheddafi. Ma anche di recente, il timore di reazioni sul piano economico ha contribuito, forse in maniera decisiva, all’umiliante retromarcia innescata solo qualche mese fa nel caso dei Marò. Insomma, principi irrinunciabili, a condizione che non costino troppo.
Questa tendenza non rivela soltanto un ineliminabile aspetto di opportunismo nella politica internazionale dell’Italia degli ultimi anni. Essa rivela soprattutto la drammatica difficoltà della nostra politica estera di determinare il giusto equilibrio fra interessi nazionali e valori fondamentali. Difficile, in queste condizioni, essere percepiti come protagonisti autorevoli e affidabili nello scacchiere internazionale.