Nashri, 7 luglio 2013. Scrivo queste note da Nashri, un paesino dello Stato del Jammu Kashmir, in India, che non si trova neanche sulla carta geografica.
Prima di entrare nel vivo, una piccola premessa per spiegare come sono arrivato qui. Nell’estate del 2011 mi stavo guardando intorno perché il mio contratto di lavoro scadeva alla fine dell’anno. Ho incontrato un vecchio amico, per il quale avevo lavorato anni prima, che poteva offrirmi solo lavori all’estero: India, Cina o Cile. Va bene, mi sono detto, grazie del caffè. Poi, tornando a casa e parlandone con mia moglie e i miei figli – pensavo che la prospettiva venisse liquidata come una follia – piano piano è venuta fuori la consapevolezza che, se questo era quello che avevo davanti come possibilità concreta, almeno ne andava esplorata la fattibilità.
Fra l’altro, questo si sposava con un’inquietudine e un desiderio che – ben nascosto fra le pieghe del vestito grigio da travet dipendente pubblico – avevo sempre sentito in me.
Quindi torno a Torino (sede dell’azienda) e preparo il curriculum per il Cile, la più umana, almeno a prima vista, delle ipotesi. A novembre si concretizza l’ipotesi: si va.
L’avventura cilena, tutto sommato, è la meno impattante. Si vive in una città moderna, con supermercati (e poco altro), la lingua si capisce, la gente anche. L’esperienza del Cile si conclude alla fine del 2012, si tratta di trovare una nuova collocazione rimanendo nell’ambito dei lavori che la società sta facendo in giro per il mondo. Mi propongono l’India. Mi sono sentito come se il Cile fosse la scuola elementare e dovessi andare alle scuole medie, con l’incognita della salute, del clima, della lingua, ma non posso dire di no né all’azienda né a me stesso. Quindi si va.
Viviamo in un villaggio realizzato dalla società di costruzioni Leighton Wellspun India per scavare la galleria Chenani Nashri, sotto il passo Pantitop, che migliorerà i collegamenti (l’unica strada) tra il Kashmir e il resto dell’India. Si tratta di sostituire circa 40 km di strada a tornanti con 9 km di una moderna galleria a pedaggio.
Io sono qui per una società italiana di ingegneria che lavora in tutto il mondo occupandosi di grandi opere (strade, ferrovie, metropolitane, impianti idroelettrici).
Noi siamo progettisti per conto dell’impresa di costruzioni e abbiamo l’incarico di seguire l’opera anche nella fase di realizzazione: il nostro compito è quello di cooperare con l’impresa per la traduzione in opera del progetto. Inoltre dobbiamo seguire il comportamento della roccia tramite strumenti inseriti in profondità e attraverso l’analisi delle misure geometriche della deformazione del rivestimento. Il rivestimento infatti si adatta alle spinte della roccia: se corrisponde alle previsioni, la deformazione si arresta, altrimenti bisogna intervenire con misure aggiuntive (barre d’acciaio, calcestruzzo spruzzato). Il nostro lavoro è proprio quello di suggerire le misure più adeguate.
Qui siamo otto colleghi: il responsabile della commessa è un greco, poi ci sono due croati, un nepalese, due indiani e noi due italiani. L’impresa, oltre al personale locale, ha addetti da tutto il modo: inglesi, australiani, olandesi, austriaci, greci. L’ambiente quindi è assolutamente multietnico e multiculturale: hindi, sikh, musulmani, cristiani ortodossi e cattolici. Il primo impatto – come sempre di fronte al nuovo – è stato piuttosto impegnativo: la sensazione era di estraneità, anche perché la prima sera in baracca è stata a base di freddo e pioggia. Estraneità che però si è dissolta in pochi giorni.
Il campo è formato da container e prefabbricati metallici che servono da uffici, da dormitori, da mensa, da lavanderia. Una piccola palestra, un tavolo da ping pong e un biliardo sono l’area relax. Il campo è separato fra lavoratori e personale tecnico ed è circondato da un reticolato sorvegliato da guardie armate (anche se in modo un po’ approssimativo). Mi è stata assegnata una stanza di 4 m per 2,5: un letto, un bagno, un armadio; quello che serve, niente di più, niente di meno. Il bagno privato è un piccolo lusso: le persone di servizio vivono in camere come la mia, ma senza bagno, e sono in sei su tre letti a castello. D’inverno si entra in camera direttamente e la doccia è fuori.
Sono previste otto settimane di lavoro e due di riposo, l’orario è dalle 7 alle 19, ma spesso si sfora. Abbiamo una domenica libera ogni due, ma qui siamo a maggioranza musulmana quindi il giorno libero è il venerdì (anche se la domenica si termina un paio di ore prima). Per arrivare in cantiere ci sono 20 minuti d’auto percorrendo, in parte, una strada sterrata e, in parte, la statale che stiamo ammodernando. Di solito, se non ci sono particolari necessità, ci andiamo una volta al giorno.
Qui non c’è molto tempo per pensare ad altro che al lavoro, anche perché la vita si svolge all’interno del campo o in cantiere; non c’è possibilità di raggiungere altro, anche perché senz’auto non si va da nessuna parte.
Il posto è bello; siamo a 1300 metri sulle montagne del pre–Himalaya che separano la piana di Srinagar, la capitale del Kashmir, dal resto dell’India. Colpisce la diffusione delle case su queste montagne: ovunque c’è un pezzettino di terra da coltivare. A molte di queste case si arriva solo a piedi, camminando lungo sentieri da capre che gli abitanti del posto percorrono con le infradito e con pesanti carichi sulle spalle. Anche il percorso in macchina colpisce per la varietà della vita che si svolge attorno a questa arteria: ci sono quelli che riparano le auto, quelli che vendono albicocche o mais abbrustolito, quelli che si lavano nei fiumiciattoli dove noi (a ragione) non prenderemmo neanche l’acqua per l’orto.
Il cibo è ottimo; nella nostra mensa si mescola un po’ di cucina internazionale reinterpreted e un po’ cucina indiana. Personalmente cerco di abituarmi alla seconda, anche perché ho sempre pensato che si deve mangiare come le persone con cui vivi; con il cuoco però stiamo organizzando una cena a base di spaghetti alla carbonara: io ci metto gli spaghetti e il parmigiano, lui è dispiaciuto di non avere il maiale ma gli ho detto che possiamo provare con la parte grassa dell’agnello.
(Angelo Villa)
1 – continua