Nella seconda domenica senza messa, il 30 giugno, nel tempio della montagna di fronte a me leggo le letture. Questa è la preghiera iniziale. Ogni tanto ce ne sono di meravigliose: “Signore, tu ci hai dato il bel nome di cristiani, che significa che noi siamo di Cristo, che noi viviamo per lui e in lui. Il nostro cammino di conversione è lungo e pieno di lotte, di combattimenti che non sappiamo sempre condurre bene perché siamo ancora troppo attaccati a noi stessi. Allarga i nostri cuori affinché aspiriamo a trovare la nostra felicità unicamente in te. Guarda ancora, in questo giorno, il profondo desiderio del nostro cuore, rivolto a te, e liberalo da ogni schiavitù per renderlo libero in te”.
Nel pomeriggio esco per andare nella mia stanza e invece mi fermo a parlare con un impiegato indiano che lavora a pochi metri da me. Mi chiede in un inglese improbabile se ci sono ‘worship’ (almeno capisco così), poi capisco che parla di chiese. Dice che oggi sua moglie l’ha chiamato 10 volte per sapere se era andato a messa, e lui a spiegarle che qui non ci sono chiese, che la domenica si lavora come gli altri giorni. Mi dice che venendo da Jammu a qui non ho visto neanche una chiesa, mentre al suo paese, nel sud, ce ne sono tante. Ma poi mi ha detto che non importa, perché anche la sua stanza può essere una chiesa. Gli ho risposto che stamattina, leggendo la liturgia domenicale davanti alla montagna, ho pensato che tutto quello che avevo di fronte era la mia cattedrale. Gli ho raccontato che sono in contatto con il vescovo, che mi ha detto che a Udhampur c’è una chiesa e il parroco è tornato da poco.
Rientro in ufficio pieno di commozione per la gioia che ho visto in questa persona che ha scoperto, in un ambiente agnostico, un volto che appartiene alla stessa storia, misteriosamente. Anche a lui mando la foto fatta al Papa. Nel frattempo mi scrive un sms (come i ragazzini) il segretario del vescovo e mi manda i numeri del parroco di Udhampur. Venerdì 5 luglio, alle 10 del mattino, si parte in direzione sud. Mi fermo nell’altro cantiere per qualche ora, poi verso le due del pomeriggio salgo in macchina, ovviamente con l’autista, verso Udamphur, la capitale della provincia dove stiamo per incontrare il parroco. Arriviamo verso le 15,30. Passo il telefono all’autista per farsi spiegare il posto ma l’autista parla hindi e solo qualche parola di inglese.
Arriviamo alla scuola del Piccolo Fiore dove vive il parroco, con tre suore del Sacro Cuore, un ordine religioso locale proveniente dallo Stato del Kerala, a sud. Anche il parroco, poco più che trentenne, è del sud. Mi porta a visitare le sorelle della scuola. Sono tre, mi offrono caffè dolci e banana salata, una specialità del Kerala. Parliamo un po’, racconto di me; la lingua è un ostacolo, ma non troppo. La superiora parla con me, mentre le altre danzano attorno a noi come uccellini. Alle 17,30 c’è la messa quindi verso le 17 partiamo verso la … caserma. La chiesa infatti, dedicata a S. Giuda Taddeo, si trova all’interno della Garrison Army, il comando dell’esercito indiano del Nord Ovest. Il parroco mi dice che ci sono molti fedeli fra gli ufficiali, la truppa e le loro famiglie. La superiora siede in macchina con noi per indicarci la strada.
La faccia dell’autista, al vederla, è uno spettacolo. La messa finisce alle 18,30, dopo ci offrono l’immancabile caffè che non mi azzardo a bere, pensando alle tre ore di auto che mi aspettano. A messa, oltre a me e alle sorelle, ci sono due impiegati civili e una signora. Non conosco le loro usanze, quindi entro con le scarpe, mentre loro le lasciano all’uscita. Mi colpisce un particolare: l’abbraccio di pace consiste nel congiungere le mani nel segno di saluto, senza toccarsi fisicamente, pur essendo così vicini. Che differenza rispetto alla mentalità sudamericana che ha bisogno del contatto fisico per trasmettere la prossimità! Ci scambiamo indirizzi mail e la sera mando anche a loro la foto del Papa fatta in piazza S. Pietro. Non so perché, ma mi sembra che testimoniare la cattolicità sia la cosa più giusta da fare, anche se mi sembra che non abbiano alcun dubbio. Alle 19 partiamo. Fra Udhampur e il cantiere ci sono circa 65 km della più importante strada del Jammu Kashmir.
Stamattina abbiamo impiegato circa 4 ore, ma al ritorno ne bastano due e mezza. C’è meno traffico, ma non so se essere contento: l’autista ne approfitta, anche perché credo voglia arrivare a casa prima di mezzanotte. Non ci sono parole per descrivere il traffico e lo stile di guida di questo posto. Bisogna provare. Al ritorno penso all’autista che deve farsi di nuovo due ore per tornare al campo sud. Penso che sia arrabbiato con me, anche perché mi sembra una persona scontrosa – non è la prima volta che andiamo via assieme. Eppure, quando scendo, accenna il saluto indiano, al quale rispondo congiungendo le mani. Non è scontato. La sera mando una mail alle suore che mi rispondono: “ Love and prayers”.
Stanchissimo, cerco di scrivere due parole, come tutte le sere, per fissare ciò che la memoria tende invece a dimenticare. La sera dopo il vescovo mi manda un sms per sapere com’è andata, mi chiede se ho incontrato il parroco … E pensare che mi sembrava una giornata dove non era successo niente. Dopo un mese che sono qui mi sento che questi luoghi cominciano a diventare familiari. La fatica è tanta, ma è resa meno pesante dalla incredibile novità che ogni giorno fa capolino nella mia giornata. L’importante è riconoscerla. Anche dal punto di vista professionale, vedo che la mia esperienza pratica ed eclettica serve a fare da sintesi fra il progetto e la sua realizzazione. E’ anche un’occasione per approfondire un aspetto della mia professione che finora avevo un po’ snobbato, il calcolo delle gallerie, che adesso invece, visto nella sua concretezza, assume un interesse del tutto nuovo.
E’ molto faticoso lavorare 12 ore al giorno ininterrottamente ma, almeno per ora, l’interesse per quello che sto facendo e vivendo supera tutto. Spero che questa fiamma non si spenga; anche perché ogni giorno nuovo combustibile si aggiunge. Mi stupisco di me stesso e della mia apertura alle novità, tanto da dirmi che è l’occasione di cambiamento che, miracolosamente, mi è data, ma mi fermo qui perchè non mi piace giocare con queste parole. «La vita è la più romantica delle avventure – ha scritto Chesterton in uno dei suoi racconti – ma soltanto chi ha il cuore di avventuriero può comprenderlo». Ecco, ho scoperto dentro di me questo desiderio di avventura e non ho fatto altro che seguirlo, che obbedire alla realtà. Semplice. Quasi banale.
(Angelo Villa)
3 – fine