Il filosofo statunitense della nonviolenza, Gene Sharp, scriveva nel 1993 che alcuni paesi stranieri intervengono contro una dittatura “solo per ottenere il controllo economico, politico o militare dello Stato in questione”. Vent’anni più tardi, le circostanze spingono a considerare il problema da una posizione quasi diametralmente opposta che tenga conto dei diversi equilibri che hanno seguito l’ondata di democratizzazioni dei primi anni 90. Laddove ci sia un regime autoritario forte, disposto a condividere (seppure a caro prezzo) le proprie risorse, è lecito chiudere un occhio e approfittare dello status quo.
Le cronache di questi giorni hanno portato alla luce, ancora una volta, la profonda e ormai annosa crisi che soffoca la politica estera italiana, indissolubilmente legata al perdurare dello stato di perenne emergenza in cui versano i vertici stessi del Paese. Le relazioni diplomatiche con le dittature libiche, bielorusse e i rapporti di familiarità con la ben poco liberale leadership russa hanno, di fatto, caratterizzato un ventennio di politica estera in cui la versione nostrana della realpolitik ha seguito un suo percorso confuso e privo di una linea-guida.
La vicenda del rimpatrio forzato della moglie e della figlia dell’uomo d’affari, oppositore del regime kazako, Mukhtar Ablyazov, ha aperto l’ennesima falla all’interno di un sistema politico quasi totalmente incapace di metabolizzare un problema senza che le possibili conseguenze minaccino l’esistenza del già fragile equilibrio su cui regge l’intero sistema politico italiano. Il Kazakhstan è un Paese che, a un immobilismo politico interno che perdura oramai dalla sua indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, contrappone una foreign policy liberale improntata al multilateralismo e al dialogo con i vicini e le potenze economiche. L’abbondanza di gas naturale, petrolio e lo sfruttamento intensivo delle miniere di uranio nell’ultimo decennio hanno fatto il resto, catapultando il Paese, in un futuro molto prossimo, tra i primi sette esportatori di greggio con una produzione di 4 milioni di barili al giorno. Ma è il fronte interno a preoccupare maggiormente le associazioni che si occupano della tutela dei diritti umani e gli analisti politici.
Nursultan Nazarbayev, a capo della giovane repubblica dall’anno della sua indipendenza, non fa più nulla per nascondere la sua posizione di leader indiscusso dietro un’illusione di democrazia. Salito sul massimo scranno kazako nel 1991, Nazarbayev ha vinto le successive quattro elezioni presidenziali correndo per altrettanti partiti diversi e arrivando a modificare la Costituzione, che all’articolo 4 ora recita: “Nessuno può essere eletto Presidente per più di due mandati”. Ma anche che “la presente restrizione non si applica al Primo Presidente della Repubblica del Kazakhstan”. Nel dicembre 2011 ha luogo la più grande dimostrazione di dissenso nei confronti del regime pseudo-democratico, che ha come pretesto uno sciopero nella piccola cittadina petrolifera di Zhanaozen, nel sud-ovest del Paese.
La polizia locale fa fuoco e un numero imprecisato di manifestanti viene ucciso. Ne segue una rivolta su scala nazionale che termina, anch’essa, nel sangue. Il Kazakhstan è dunque un Paese a due velocità e, va detto, l’Italia per una volta era stata fra i primi a premiarne gli intenti democratici e a riconoscerne la sovranità nel 1991. Fino a diventarne il secondo partner commerciale verso la metà degli anni duemila.
Emma Bonino, nel 2007 ministro per il Commercio internazionale, incontra, insieme all’allora presidente del Consiglio Romano Prodi e una delegazione di 200 imprenditori italiani guidata da Luca Cordero di Montezemolo, il presidente Nazarbayev. L’incontro conferma gli ottimi rapporti commerciali e l’Italia promette di aiutare la candidatura del Paese dell’Asia centrale a membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Non una parola sulle crescenti restrizioni che porteranno, nel 2012, Reporter Senza Frontiere a dichiarare che la pluralità d’informazione in Kazakhstan è ormai a rischio d’estinzione.
Il modus operandi italiano riflette dunque una politica di convenienza che, se da un lato è comune alla maggior parte delle democrazie occidentali (basti pensare ai rapporti conflittuali tra Usa e Pakistan, ad esempio), dall’altro ha l’indubbio potere di smascherare la pochezza sistemica che è propria di contesti in cui la contingenza prende il sopravvento sulla lungimiranza. La reazione scomposta degli esponenti politici italiani segue dunque un copione già collaudato pochi mesi fa nell’ambito del pasticcio legato alla situazione dei marò in India. La totale mancanza di una dottrina, o anche solo di una strategia internazionale, collegata a una situazione politica interna costantemente precaria, non consente il mantenimento di un piano conforme di risposte a situazioni imprevedibili come quelle citate. Con buona pace di Gene Sharp e della consapevolezza del fatto che i regimi totalitari vanno rimossi solo se sufficientemente deboli. Con gli altri è meglio fare affari.
(Alex Franquelli)