Dopo tre anni di stallo riprendono i colloqui tra Israele e Autorità Palestinese. Lo ha annunciato John Kerry, segretario di Stato americano. Entrambe le parti in causa si sono dette disponibili ad avviare un dialogo sulle questioni relative ai territori e sul riconoscimento dei due Stati. “Sono lieto di annunciare che abbiamo raggiunto un accordo che stabilisce una base per riprendere i negoziati diretti tra palestinesi e israeliani sullo status finale”, le parole di Kerry, il quale ha aggiunto che l’accordo è ancora in corso di formalizzazione. Ilsussidiario.net ha intervistato Filippo Landi, corrispondente della Rai da Gerusalemme.
Qual è il significato di questa riapertura dei negoziati?
Questi colloqui sono una conseguenza delle ultime elezioni israeliane e statunitensi. Netanyahu ha preso atto che Obama ha vinto nuovamente, anche se è noto che il premier israeliano sperava nel successo del candidato repubblicano. D’altra parte Obama è stato costretto a riconoscere che, pur indebolito, Netanyahu è rimasto alla guida della politica israeliana. I due leader non si amano, ma entrambi sono stati messi di fronte al fatto che per almeno quattro anni entrambi continueranno a governare i rispettivi Paesi. Si tratta di una presa d’atto realistica e pragmatica della situazione. Da parte palestinese si è accettata la ripresa dei colloqui, anche se non sono state soddisfatte le loro “pre-condizioni”.
Che cosa chiedevano i palestinesi?
La loro richiesta era che i colloqui iniziassero nel momento in cui fosse stata sospesa la realizzazione di nuovi insediamenti ebraici nei territori palestinesi. In questo momento la Cisgiordania è un enorme cantiere, con nuove costruzioni ovunque, ma questo problema non è affrontato nel momento in cui si riprendono i colloqui di pace. C’è soltanto la definizione generica che per nove mesi i due interlocutori, i palestinesi e gli israeliani, non porranno in essere azioni contro lo svolgimento dei colloqui stessi.
Da che cosa dipenderà il successo dei negoziati?
Per rispondere occorre ricordare perché fallirono i precedenti colloqui di pace nell’estate del 2000 a Camp David tra Barak, Clinton e Arafat. Il motivo dirimente fu il futuro di Gerusalemme. Ancora oggi su tutto ci si può accordare tranne che su questo aspetto. Il premier israeliano Ehud Barak insistette sulla richiesta di Gerusalemme come capitale solo dello Stato di Israele e quindi non più divisa. Arafat rispose: “Accettare questo sarebbe la mia condanna a morte”.
Che cosa accadrà con i nuovi colloqui che si apriranno nei prossimi giorni?
Tutto dipenderà dall’atteggiamento con cui le due parti in causa arriveranno al momento di discutere il futuro di Gerusalemme. Se israeliani e palestinesi troveranno la forza per affrontare questo tema in modo diverso i colloqui avranno successo, altrimenti saranno condannati a un nuovo fallimento.
Perché per i palestinesi Gerusalemme è fondamentale?
Sulla posizione palestinese pesa il fatto che, per il mondo arabo e musulmano, Gerusalemme è una città con una valenza tale da rendere inaccettabile che rimanga sotto l’esclusivo controllo ebraico. E’ il contraltare di quanto afferma Netanyahu, e questa convinzione esula dalla stessa questione nazionale palestinese. Riguarda piuttosto l’importanza storica, culturale e religiosa che ha Gerusalemme per il mondo arabo.
Che cosa ne pensa del rapporto reso noto dalla Reuters, secondo cui Israele sarebbe pronto a siglare la pace sui confini precedenti al 1967?
Il problema è che Israele negli ultimi 20 anni ha costruito un sistema di colonie al di là dei confini del ’67 ed è molto difficile definire il futuro di questi insediamenti nei quali vivono centinaia di migliaia di persone. Solo 200mila si trovano nei quartieri arabi di Gerusalemme, più di 300mila nel resto della Cisgiordania. Per gli israeliani definire i confini sulla base della situazione precedente al 1967 significa quindi che le tre grandi colonie, quelle di Ariel, Ma’ale Adumim e Gush Etzion, dovrebbero essere inglobate all’interno dello Stato ebraico, nonostante queste ultime si protendano come tre “dita” nel territorio palestinese.
Si tratta di una soluzione accettabile per i palestinesi?
Se questo si verificasse ci sarebbe un problema enorme per il futuro Stato palestinese, che diventerebbe un territorio a macchia di leopardo. La proposta israeliana fatta ventilare in questo periodo è che alcune colonie potrebbero lasciare la Cisgiordania, anche se si tratta di una soluzione che non riguarderebbe questi tre grandi blocchi. C’è quindi chi propone che gli abitanti israeliani di queste colonie possano rimanere nei territori palestinesi come cittadini stranieri.
(Pietro Vernizzi)