Dopo esser stato deposto, Morsi è stato arrestato. Peraltro, con un’accusa gravissima: avrebbe preso contatto con Hamas per compiere «atti ostili» in territorio egiziano, come l’assalto a prigioni e commissariati, l’evasione di detenuti o la distruzione del penitenziario di Wadi el Natroun, da cui Morsi stesso, allora imprigionato, fuggì in seguito alla rivoluzione di due anni fa. L’episodio contribuisce e rendere la situazione incandescente. Tanto più che, nella non distante Tunisia, è stato appena ucciso il leader dell’opposizione laica, Mohamed Brahm. E si tratta del secondo leader dell’opposizione freddato nel corso di sei mesi. In mezzo, infine, c’è la Libia, dove tutto può dirsi salvo che il clima si sia finalmente rasserenato. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Franco Frattini, già ministro degli Esteri e candidato dell’Italia alla segreteria generale della Nato.



Cosa ne pensa dell’arresto di Morsi?

Le accuse, in una situazione così complicata, non vanno prese per oro colato. Potrebbero rappresentare, semplicemente, la giustificazione a posteriori per la sua deposizione. Se, in ogni caso, fossero vere, saremmo di fronte a circostanze estremamente gravi: significherebbe che la Striscia di Gaza è diventata un’area di libera circolazione delle forze terroristiche, mentre i Fratelli musulmani operano in continuità con Hamas. Il contrario di quanto Morsi aveva lasciato intendere, confermando gli accordi con Israele, e ribadendo la necessità di favorire il processo di pace.



In ogni caso, che effetti potrebbe sortire?

Si tratta di benzina sul fuoco. Siamo alla vigilia di 48 ore delicatissime, perché sia i ribelli che i Fratelli musulmani hanno invitato i propri seguaci a scendere in piazza. Diffondere segnali di questo tipo rischia di dar luogo a prove di forza che vanno scongiurate.

La situazione potrebbe deflagrare in un’islamizzazione radicale del Paese?

Il rischio c’è e, del resto, è quanto paventa l’ala più dialogante dei Fratelli musulmani. Affermando, cioè, che l’arresto e la deposizione di Morsi consegnano la bandiera della rivoluzione islamica nelle mani dei salafiti, espressione dell’islam radicale.



A questo punto, cosa dovrebbe fare l’esercito?

Integrare i Fratelli musulmani nel nuovo processo di ricostruzione istituzionale. Lasciarli fuori li indebolirebbe a tal punto da giustificare un forte sostegno ai salafiti.

Non crede che già con Morsi la situazione, rispetto al precedente regime, fosse peggiorata?

Indubbiamente. Il sistema si era degradato verso un islamismo sempre più radicale. La Fratellanza si è trovata a fronteggiare i salafati sul terreno dell’affermazione e dell’applicazione della Sharia, cercando di dimostrare di non essere indietro neppure di un millimetro. L’esperienza Morsi ha sancito il fallimento dell’islam politico. Molti speravano che costruisse un ordinamento civile, svincolato, cioè, da quello teocratico. Così non è stato. Come, d’altra parte, è rimasta inevasa la promessa di coinvolgere nel processo di rinascita del Paese i cristiani copti, che in Egitto sono milioni. Anzi, le violenze nei loro confronti sono continuate, complice la “distrazione” delle forze di sicurezza che avrebbero dovuto proteggerli. Il flusso da e verso la Striscia di Gaza, infine, è drasticamente aumentato. In conclusione, i Fratelli musulmani hanno preso il potere legittimamente, ma non sono stati in grado di governare.

 

Di fronte a un tale scenario, che atteggiamento dovrebbero assumere l’Europa e l’Occidente?

Finora ci siamo limitati a fornire aiuti economici e un generico sostegno politico, mentre l’Fmi ha offerto un negoziato per gli aiuti che è stato addirittura rifiutato. L’Egitto, infatti, ha ritenuto le clausole in esso contenute (come l’imposizione della disponibilità a subire le ispezioni internazionali in qualunque momento l’Occidente lo ritenesse opportuno) lesive della propria dignità. Da questo punto di vista, è stato molto più incisivo Erdogan, che ha invitato l’Egitto ad applicare un modello di islam moderato simile a quello turco. L’Occidente, quindi, avrebbe potuto moltiplicare l’invio di messaggi di questo genere, affermando, per esempio: “vogliamo un Egitto più vicino ad Ankara che a Teheran”. Contestualmente, dovremo modificare il nostro classico modo di intendere i rapporti. Ovvero: Paese ricco donatore-Paese povero.

 

In altri termini?

Dovremmo richiedere un partenariato politico che attenuti l’attuale regime dei visti e consenta una maggiore circolazione delle persone (studenti, imprenditori o ricercatori, soprattutto). Come è auspicabile la sottoscrizione di accordi di libera circolazione dei beni. Dovremmo, cioè, implementare quelle azioni che intrapresi da commissario europeo nei confronti dei Paesi balcanici.

 

La partnership non dovrebbe essere subordinata al rispetto dei diritti umani?

Certo. Ma anch’essi devono esser inseriti nel quadro di un accordo politico. Non possiamo dimenticare che pure gli altri Paesi hanno un’opinione pubblica, e che questa non potrà mai accettare un documento scritto a Bruxelles su cosa siano i diritti umani. Sulla libertà religiosa o sulla parità tra uomo e donna, per esempio, sarà necessario aprire un confronto tenendo conto del fatto che l’Egitto o altri Paesi hanno un orgoglio nazionale che va rispettato.

 

Cosa sta accadendo invece in Tunisia?

Il capo dell’opposizione tunisina si opponeva all’islamizzazione di una parte di Ennahda (il partito  islamico al potere che al suo interno ha un’ala dialogante e moderata e governa in coalizione con partiti laici). Chi protesta in Tunisia, quindi, vuole come in Egitto una società rispettosa dell’islam e, al contempo, delle libertà fondamentali.

 

Chi sono i manifestanti?

In entrambi i Paesi provengono da quella parte della borghesia civile che, inizialmente, aveva contribuito alla cacciata dei dittatori, ma che ha visto le proprie domande frustrate. Questi giovani non chiedevano di certo teocrazia o Sharia, e hanno scoperto di esser stati strumentalizzati da infiltrazioni presenti all’interno della protesta.

 

Rispetto a questi fenomeni, quale dovrà essere il ruolo della Nato?

L’Alleanza atlantica post-2014, quando la missione combattente in Afghanistan sarà finita, dovrà assumere sempre più un ruolo volto alla stabilizzazione della aree di conflitto. Se vogliamo avere nelle regioni critiche del mondo partner affidabili, non possiamo più pensare alla Nato come al poliziotto globale, pronto a intervenire ovunque; dovremo aiutare, invece, quei Paesi a creare un esercito, milizie fedeli alla Costituzione, corpi di polizia ben addestrati. In tal senso, la decisione dell’attuale segretario della Nato, Anders Rasmussen, di mandare una missione in Libia per agevolare la costruzione di una guardia nazionale, di un ministero della Difesa e di un’agenzia della sicurezza, è stata sacrosanta.

 

La Nato, in sostanza, dovrebbe “italianizzarsi”?

Diciamo che è indubbio che in essa vada rafforzata un’attitudine che, tradizionalmente, l’Italia ha sempre ritenuto fondamentale: nelle aree di crisi si va non tanto per sparare, quanto per stabilizzare e ricostruire. I nostri militari, all’occorrenza, sono straordinari combattenti, ma altrettanto straordinari formatori. Lo abbiamo dimostrato in Iraq e lo stiamo dimostrando in Afghanistan. Ebbene, la Nato dovrà riflettere sull’assunzione di analoghi ruoli di sostegno alla stabilità non solo in Libia, ma anche in tutti quei Paesi che, se aiutati ad essere affidabili, non imporranno mai la necessità di un intervento. Per intenderci, se la Somalia non fosse stata lasciata per decenni alla deriva, oggi non avremmo l’esigenza di dover impiegare uomini, armi e risorse per fronteggiare la pirateria.

 

E in Egitto?

Beh, in Egitto l’esercito è il pilastro delle istituzioni, e funziona bene. Non credo che gli egiziani avranno mai bisogno di aiuto per formare le proprie milizie.

 

(Paolo Nessi)