L’amministrazione Obama manifesta una crescente preoccupazione per lo scontro in atto in Egitto tra Esercito e Fratelli musulmani. In una serie di messaggi privati diffusi nei giorni scorsi, il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e altri funzionari americani hanno avvertito il generale Abdel Fattah Al Sisi, capo dell’Esercito egiziano, sui rischi che potrebbero derivare dal suo colpo di mano. Ilsussidiario.net ha intervistato Camille Eid, giornalista di Avvenire e professore all’Università Cattolica.



Per quale motivo gli Stati Uniti stanno sostenendo i Fratelli musulmani?

L’accusa rivolta a Washington di sostenere i Fratelli musulmani per inconfessabili secondi fini appartiene più al mito che alla realtà. Si è sprecato molto inchiostro per affermare che gli Stati Uniti starebbero trasformando la Primavera araba in una Primavera islamica. In realtà negli ultimi decenni la politica americana nei confronti dei Fratelli musulmani è stata abbastanza lineare. Quando si parla di Medio Oriente, alla Casa Bianca interessano principalmente tre cose: garantire il flusso del petrolio, la supremazia militare di Israele e il contenimento dell’Iran.



Di fatto come è cambiato nel tempo il rapporto tra Washington e i Fratelli musulmani?

La scelta americana di “appoggiare” i Fratelli musulmani è stata una conseguenza della vittoria di questi ultimi alle elezioni legislative del novembre 2011- gennaio 2012, nel corso delle quali il Partito Libertà e Giustizia ha ottenuto il 47% dei voti. Prima del voto, Obama nelle sue dichiarazioni e interviste aveva definito i Fratelli musulmani come una delle forze sulla scena politica, ma aveva precisato che non erano comunque sostenuti dalla maggioranza del popolo egiziano, aggiungendo che Washington poteva contare su diverse alternative.



Quindi la consultazione elettorale ha segnato una svolta?

Sì, in quanto all’indomani delle elezioni legislative l’amministrazione Usa è stata costretta a intessere rapporti con i nuovi vincitori. Fino a quel momento le relazioni tra le due parti, che pure risalivano agli anni ’50 del secolo scorso, erano state basate piuttosto sulla diffidenza e sugli interessi reciproci. Sappiamo che il Qatar ha sostenuto Morsi e che l’Arabia Saudita lo ha ostacolato.

Lei vuole dire che gli Usa sarebbero estranei alla partita giocata dai suoi due principali alleati nel mondo arabo?

Sia Qatar sia Arabia Saudita rispondono ai desiderata di Washington, perché dipendono dagli Usa sia dal punto di vista militare che per il sostegno alle dinastie regnanti. La questione fondamentale è però un’altra.

 

Quale?

In Egitto e Tunisia, la tendenza in atto è quella a una crescita del potere dei salafiti che si sta estendendo anche a Libia e Siria. Temo quindi l’estromissione dei Fratelli musulmani, dei quali non condivido affatto gli ideali, ma che rappresentano comunque il male minore.

 

Per quale motivo?

All’interno del variegato mondo dell’Islam politico i Fratelli musulmani sono di gran lunga migliori rispetto ai salafiti, il cui obiettivo è imporre delle regole estremamente rigorose alla convivenza civile. Gli Stati Uniti hanno preso posizione a favore dei Fratelli musulmani non tanto per compiacere il Qatar, anche perché per Washington conta molto di più l’Arabia Saudita, quanto piuttosto per una scelta di scommettere sul cavallo vincente.

 

Quindi nessun accordo segreto?

L’anno scorso ci sono state due visite a Washington da parte di membri ufficiali della Fratellanza, in aprile e in dicembre. Nella seconda occasione la notizia è stata data dal Cairo ancora prima del comunicato della Casa Bianca. Qualcuno ha anche affermato che dietro ci sarebbe in realtà la promessa da parte di Morsi di non rompere l’accordo di pace con Israele. In realtà la scommessa di Washington sui Fratelli musulmani è dovuta all’assenza di un’alternativa politica valida.

 

(Pietro Vernizzi)