Una notizia buona e una cattiva, come si usa dire: il soldato statunitense Bradley Manning, arrestato nel 2010 con l’accusa di aver rubato informazioni riservate e averle passate al fondatore di Wikileaks, Julian Assange, è stato riconosciuto colpevole di spionaggio, ma scagionato dall’accusa di “connivenza con il nemico”. La condanna è arrivata poco fa dopo il processo per corte marziale che si è tenuto a Fort Meade nel Maryland. Una storia lunga che arriva finalmente alla conclusione anche se lascia molte ombre: Manning, considerato per tutti questi anni un traditore, colpevole di aver trafugato circa 700mila documenti riservati del governo americano (il più grave furto del genere nella storia) era stato arrestato tre anni fa mentre era di stanza in Iraq. Per ben undici mesi era stato tenuto in isolamento assoluto per 23 ore al giorno, senza mai poter riuscire all’aperto neanche per la classica ora d’aria. La corte oggi ha ripetuto le accuse infamanti, tanto che il presidente aveva rifiutato la richiesta dei difensori di eliminare l’accusa più grave: aiuto al nemico, come viene identificato Wikileaks e in genere chi ha attinto a quelle fonti. La corte però l’ ha scagionato da tale accusa condannandolo però per 19 dei 21 di spionaggio di cui era accusato. I suoi difensori lo hanno definito “un ingenuo mosso da buone intenzioni”. Un ingenuo che voleva aprire un dibattito su certi comportamenti americani all’estero e nelle varie guerre in cui è coinvolto il paese, ma per l’accusa ha solo messo in pericolo l’intera sicurezza nazionale. Se l’accusa di connivenza con il nemico avrebbe comportato l’ergastolo immediato, il cumulo di condanne per i capi di spionaggio non gli riserveranno una sorte molto diversa. Si pensa infatti che passerà il resto della sua vita in carcere.