Non dobbiamo avere timore nello snocciolare i vari aspetti della crisi egiziana. Ho più volte parlato, durante i convulsi e ancora non terminati giorni della deposizione di Morsi, di un Piano Marshall per l’Egitto. Cosa non facile da pensare né da attuare, obietterà qualcuno, visto che parliamo del Paese arabo più popoloso di tutti. A queste obiezioni io potrei contro obiettare con un argomento assai più calzante: quando gli Stati Uniti realizzarono il Piano Marshall sull’Europa devastata dalla guerra (quella ad ovest di Berlino, si intende) erano soli a sostenere la ricostruzione di un intero continente, che non aveva più nulla. Nemmeno le case. Oggi ci troviamo di fronte ad un panorama assai diverso: assieme agli Usa c’è anche l’Unione Europea, che di fondi ne ha in quantità enorme. E ci sarebbe anche la Lega Araba, che però latita. E il Paese da salvare è uno solo. In difficoltà nera, ma uno solo. I Fratelli Musulmani, con buona pace di chi ancora dice che non è stata data loro la possibilità di lavorare, altro non hanno fatto se non prosciugare un pozzo che in due anni si è fatto sempre più secco. La responsabilità degli Usa e dell’Europa è grande. E né Obama né la Ashton possono nasconderlo al mondo. I miliardi di dollari ricevuti dai Fratelli Musulmani da Usa, Lega Araba e Qatar, sono finiti nelle tasche di potenziali, ma mai concretizzatisi alleati africani e mai nelle mani del popolo: da 36 miliardi di dollari di riserve finanziarie quando cadde Mubarak, a 13.5 miliardi di oggi. Soldi scomparsi nel nulla per una politica restrittiva e piena di divieti, anche alle attività più lucrose per le casse dello Stato.
Pane, acqua e soprattutto sicurezza. Ecco i tre pilastri su cui il popolo egiziano spera di poter contare di nuovo per ripartire; non per un’economia di sussistenza bensì per un’economia “guidata” al concentrarsi degli sforzi sull’oro egiziano: il turismo. Il pane per gli adulti, il latte per i piccoli e la sicurezza per tutti. Non è così difficile sostenere, se si vuole, un Paese che sa di potercela fare ma che davanti al pane schizzato a venticinque volte il suo costo e all’acqua inquinata fonte di malattie si sente in ginocchio. I Fratelli Musulmani, si badi bene, avevano realizzato il loro piccolo Piano Marshall negli anni, distribuendo piccoli aiuti ai ceti più bassi della popolazione, riuscendo così a portarli dalla propria parte. Ma all’atto di dover governare la responsabilità di un successo forse troppo veloce, e forse inaspettato in questa tempistica, è stata troppo pesante. La chiamata alla preghiera può sostituire il pane? L’essere stimati come rigidi osservanti di una deformazione della fede può sostituire l’acqua? No, direi di no. Venti milioni hanno detto no.
Sostegno alle aziende, dunque, e al contempo aumento della sicurezza negli snodi focali del Paese; questo sarebbe un primo passo per far tornare l’Egitto a respirare e gli imprenditori ad investire sugli asset economici egiziani. Come sta accadendo in Libia, nella quale la stabilità riprende piede e gli imprenditori vengono invogliati dallo stesso governo, liberatosi della zavorra estremista. L’incognita è solo una: come si comporteranno le frange più estreme? Se sceglieranno di colpire il sistema turistico per affondare l’Egitto poco si potrà fare. Se decideranno di toccare chi viene a soggiornare in Egitto, raderanno al suolo ogni possibilità di ripresa. Ma Europa e Usa non debbono stare a guardare. Io lancio una proposta: perché i fondi destinati alle armi per i cosiddetti “ribelli” siriani non vengono dirottati sui moderati egiziani? Un popolo che scende in piazza in massa, a milioni, non merita la stessa considerazione di un gruppo di islamisti il cui gioco ormai è stato smascherato? Oppure la lobby estremista davvero conta più di quel che pensiamo, tanto da tenere alla fame un popolo solo perché tassello saltato di un risiko di potere sempre più traballante?