Caro Direttore, mi trovo a Ngozi, in Burundi, per un progetto di cooperazione tra università italiane e quella locale. Tra le iniziative previste, c’è un corso di scienze infermieristiche per il personale locale che opera all’ospedale di distretto.
Ieri è ripartito il responsabile del progetto, un noto primario di neonatologia di un’università italiana; per tutti qui è “il prof” e io, che questa prima settimana sono stata al suo “seguito”, da oggi posso gestire un po’ di più il mio tempo … (anche se non ne sono del tutto sicura!)
Le giornate sono volate. Mi sono resa conto che era trascorsa una settimana quando sono andata a messa domenica (ero partita di domenica). Per la prima volta sono stata nel centro di Rilima, in Rwanda; ero con il prof e Francesco, un fisioterapista della fondazione che coordina il progetto, che si fermerà per un mese a supervisionare il lavoro di fisioterapia. Ma andiamo con ordine.
Sono arrivata in Burundi con il prof e altre due persone: Loris, un chirurgo otorino che ha preso due settimane di ferie per venire qui (conosceva questo posto perché ci è già stato nel 2000 e nel 2006) e Gabriele, un giovane informatico che deve verificare la possibilità di mettere in piedi la telemedicina!
Abbiamo a disposizione tre casette nelle vicinanze dell’ospedale e in prossimità di quelle del medico provinciale e del direttore sanitario, quindi all’ospedale si va a piedi. Qui abita stabilmente una coppia: Vania, anestesista, e Nicola, elettricista che segue il cantiere e le loro due bambine, Martina di 5 mesi e Maria Chiara di 2 anni e mezzo. Abbiamo incontrato un chirurgo italiano che viene qui due – tre volte all’anno per tenere lezioni e per aiutare negli interventi; Silvia, una giovane fisioterapista spagnola che si è aggregata al progetto, e Francesco. Le tre mitiche Sorelle della Misericordia vivono in una piccola casetta dall’altra parte dell’ospedale. Con loro ho scoperto che c’è una messa alle 6.30 del mattino, in francese, al vescovado, prima che gli altri si alzino. A Bujumbura ho conosciuto gli amici di AVSI e ieri sera abbiamo cenato con quelli che abitano qui.
La vita della “casa” (con i vari medici e le altre persone che vivono qui) è un po’ come “uscire dal cortile” per stare alla compagnia, con tutta la varietà di credo e modi di essere: tutti, in modo diverso, hanno un gran desiderio di fare e gusto per l’Africa. Mi ha aiutato ricordarmi che sono qui per “fare il cristianesimo”che significa “il legame che Cristo stabilisce con me”, fidandomi di ciò che mi sta accadendo, come mi ha scritto padre Sergio prima di partire, e con la certezza che Lui mi precede, quindi senza tante preoccupazioni. Devo dire che fino ad ora sono stata in pace, seguendo quello che mi diceva il prof, assistendo praticamente a tutti gli incontri che ha fatto. Mi accorgo che essere stata per due anni consecutivi in Italia mi ha fatto dimenticare alcune difficoltà molto pratiche che qui si incontrano quotidianamente, come il lavarsi, il lavare o lasciar lavare la tua roba, il mangiare, niente vino, dolci… la strada tutta impolverata, piccole cose che chiedono di abbandonare certe comodità. Tutto serve per ricordarti per Chi sei qui. Comunque ho la mia camera e riesco anche a fare silenzio. Ho un letto matrimoniale con materasso di gommapiuma, per cui quando c’è il buco da una parte mi sposto dall’altra!
Veniamo al progetto. L’università italiana ha iniziato nel 2000 il corso di scienze infermieristiche in collaborazione con l’università privata popolare di Ngozi, inviando docenti dall’Italia e reclutandone in loco. Si sono già diplomati circa 350 infermieri (la durata del corso è di 4 anni, da poco portata a 3). Il problema che si poneva era dove inviare gli studenti per il tirocinio pratico. Inizialmente a Bujumbura, ma i risultati erano piuttosto scadenti. Quindi il prof ha identificato l’ospedale di Ngozi, riferimento per le regioni del nord, come sede di tirocinio. Oltre alle strutture bisogna “riabilitare” anche il personale. Sulle strutture un po’ ci siamo, compresa la nuova costruzione per il dipartimento materno infantile che sarà completata a fine anno; ma sulle persone proprio non ci siamo.
Quando giravo con il prof incontravo i vari responsabili – direttore, cooperazione svizzera, rettore dell’università ecc – e sembrava che tutto andasse bene, ma adesso che ho iniziato a visitare i reparti vorrei scappare! Sto cercando di capire come muovermi, cosa serve fare, sto iniziando a conoscere medici e infermieri locali cercando di concentrarmi sulla pediatria, che significa neonatologia (con una piccola terapia intensiva, 20 culle) centro nutrizionale e pediatria (circa 60 letti con doppi bambini più mamma e parenti vari dentro i lettini!).
Igiene sotto zero e organizzazione del lavoro scarsissima (cartelle da riempire, carrelli per medicine in disordine, ecc). Le nostre infermiere sarebbero inorridite. La patologia è veramente varia: malaria, AIDS, diarree, osteomieliti gravi che necessitano amputazioni, malformazioni congenite. In questi giorni ho pensato di iniziare dal centro nutrizionale, che per impostazione e protocolli è simile a quelli del Sudan e di Haiti, quindi mi so un po’ giostrare. Da lì sto cercando di capire i vari aspetti legati alla pediatria. Sto cercando di capire anche cosa serve di più, anche in vista del mio ritorno a settembre, spero con Benedetta, la nostra amica specializzanda in Pediatria.
Sono ogni giorno di fronte alla grande provocazione della sofferenza della gente e all’indifferenza di chi dovrebbe accudire. Ma ci sono anche gesti che commuovono: ad esempio Suor Bruna, che segue i neonatini della terapia intensiva e si tira dietro qualche infermiera, oppure quelli che si occupano della riabilitazione, in convenzione con la onlus del prof, che sta facendo un bel lavoro sia con il personale che con i malati, e Silvia che ha un bel rapporto con tutti, come le persone giovani spesso sanno fare, senza pretese.
Sabato e domenica sono andata con il prof e Francesco in Rwanda, a circa 150 Km da qui, passando la frontiera, a Rilima, dove c’è un grosso centro di ortopedia, riabilitazione, protesi per bambini e ragazzi, residenziale, in tutto erano presenti un centinaio di persone. Sul muro della sala/ cappella due belle foto di don Gnocchi e la scritta in quattro lingue: “accanto alla vita, sempre”.
Serve fissarsi nella mente queste cose per starci, dove sei. Al ritorno siamo passati per Nyamata, dove ero stata nel 1994, dopo il genocidio: lì c’è la chiesa dove hanno massacrato più di un migliaio di persone. Quel luogo ora è stato trasformato in santuario della memoria. Hanno scavato sotto il pavimento e hanno creato uno spazio dove sono raccolte tutte le ossa e tutti i crani (si può addirittura ricostruire quello che è successo: se hanno usato il macete, granate, mitra, ecc) anche di bambini. È ancora visibile la mano insanguinata sull’altare. L’unica cosa che mi è venuta da dire è stata: “Signore perdonaci”. E’ difficile anche solo sentire raccontare quello che è successo: la giovane guida ne parlava come di una storia passata ma a me sembrava ieri, anche se ormai sono trascorsi quasi 20 anni e la storia continua a ripetersi.
La messa del mattino, il silenzio della sera sono il punto di riferimento per non lasciarsi confondere dalle circostanze, ma per accettarle, fidandomi.
Mentre scrivo ho in mente tutti voi: il papà di Fausta, Marialina, i bimbi della cascina, Tobia in partenza per il Brasile, gli altri in giro per il mondo, vi sento vicini ciascuno con la sua circostanza. Sperando che quello che mi accade sia per tutti e questa “strana” avventura non sia vana.
(Chiara Mezzalira)