È difficile dire chi ha maggiori responsabilità nella crisi senza fine in cui sta precipitando l’Egitto: il regime islamico, che ha riscosso i crediti della rivolta popolare contro il regime di Mubarak ovvero i militari i quali, dopo aver abbattuto un regime inefficiente e corrotto, sembrano voler rinnovare la tradizione cesarista dell’esercito. I primi non hanno colto l’occasione che si presentava loro. Quella di governare un Paese-guida del mondo arabo dando prova di efficienza e moderazione. I secondi non sembrano voler cogliere l’occasione di presentarsi come guardiani della Costituzione e della laicità dello Stato, e sembrano piuttosto marciare verso l’instaurazione di un nuovo regime autoritario. In questa alternativa fra islamismo e autoritarismo sembrano esaurirsi le prospettive aperte dalle primavere arabe, di solo pochi anni fa.
Come uscire dal dilemma? Che fare quando le procedure democratiche vengano utilizzate per liquidare la democrazia?
Nei Paesi di lunga tradizione democratica, il problema è generalmente risolto dalla presenza di limiti e contropoteri rispetto al volere della maggioranza, che impediscano un uso abusivo della democrazia. L’intervento militare dell’esercito egiziano sembrava inizialmente avere una funzione limitata: quella di sostituire tali “anticorpi” e riavviare il processo democratico interrotto dall’islamizzazione strisciante del regime. Una elezione darebbe verosimilmente, oggi un risultato diverso da quella che ha portato al potere la Fratellanza. Essa evidenzierebbe come la caduta del regime islamico sia stata provocata dalla sua inefficienza e corruzione e dalla perdita del sostegno della popolazione e non da una manovra di palazzo.
Il recente inasprimento della repressione dei sostenitori del Presidente Morsi da parte dei militari sembra invece preludere all’instaurazione di un nuovo regime militare che darebbe rinnovato fiato all’estremismo islamico. Sarebbe però un errore, politico e strategico, per i Paesi occidentali, seguire i militari su questa strada. Il ritorno alla democrazia appare preferibile non solo per ragioni di principio, ma anche per ragioni di opportunità. È forse tempo che si prenda atto del vicolo cieco in cui ha condotto la politica dei “due forni” seguita finora dall’occidente nel Medio oriente: il forno della democrazia, nei Paesi dominati da regimi autoritari anti-occidentali; il forno dell’autoritarismo militare nei Paesi dove processo democratico non dia il risultato sperato dalle cancellerie occidentali. Nessuna di queste politiche ha prodotto maggiore stabilità e maggiore rispetto per i diritti fondamentali. Ambedue sono state fonti di instabilità. Ambedue hanno creato una sgradevole impressione di incoerenza e rafforzato sentimenti antioccidentali in un’area nella quale non mancano le tensioni.
La vicenda egiziana offre quindi una buona occasione per rivedere radicalmente la politica occidentale nel Medio oriente e per dimostrare che i regimi islamici possono essere battuti per via elettorale. Nella dichiarazione congiunta del 7 agosto, il Segretario di Stato Kerry e l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea, Ashton, pur con varie ambiguità, sembrano indicare questa strada. Se si può pensare, con un po’ di cinismo, che non sia una cattiva idea liberarsi di un regime inefficiente e impopolare attraverso un intervento militare, è sicuramente preferibile che la sconfitta dell’estremismo sia decretata da una elezione democratica piuttosto che dai carri armati.