Non esiste nessuna certezza sul fatto che il regime di Assad abbia usato le armi chimiche, ma il Regno Unito si prepara a intervenire in Siria per ragioni umanitarie anche senza la copertura dell’Onu. E’ il ragionamento del premier britannico David Cameron nel suo discorso di fronte ai parlamentari richiamati in anticipo dalle vacanze estive per discutere l’ipotesi di una missione militare. Le parole di Cameron ricalcano la posizione di Obama, che sta preparando l’intervento anche se gli ispettori dell’Onu sono ben lontani dall’aver trovato risposte ai molti dubbi sull’utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco. Nel frattempo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, ieri sera ha convocato i cinque membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Russia, Francia, Cina, Usa e Regno Unito, per discutere del caso siriano. A spingere per una riunione urgente, con l’obiettivo di trovare un accordo, è stata in particolare la Russia. La vera partita però non sembra essere umanitaria ma strategica. A documentarlo è Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Cesi), consigliere strategico del ministro della Difesa, Mario Mauro, e consulente del Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica.
Presidente Margelletti, i piani di Stati Uniti e Regno Unito hanno subito una brusca accelerata. Come si spiega il loro comportamento?
La vera posta in gioco è che ormai dal lontano 1979 si sta disputando una partita determinante per decidere chi sarà la superpotenza regionale del Medio Oriente. Lo scontro era e permane tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita degli Al-Saud. L’uscita dell’Iran dall’orbita occidentale ha accelerato questo processo facendo sì che l’Arabia Saudita rimanesse l’unico grande alleato degli Stati Uniti. Nel corso degli anni si è verificato un rafforzamento dell’asse scita tra Iran e Siria, a fronte del quale c’è stato il potenziamento molto marcato della componente di Hezbollah.
Per quale motivo il partito libanese è visto da Washington come un avversario?
Hezbollah è il problema strategico di Israele per antonomasia. L’indebolimento della Siria nella sua attuale forma porterebbe Damasco a uscire dall’orbita di Teheran, depotenziando l’Iran e rafforzando l’Arabia Saudita. Nello stesso tempo si indebolirebbe Hezbollah potenziando Israele.
E quindi?
L’uscita del gruppo dirigente di Assad consentirebbe la creazione una nuova classe politica siriana, affidata a tribù il cui requisito dovrà essere quello di non essere alleate dell’Iran. In questo modo gli Stati Uniti otterrebbero una serie di vantaggi non indifferenti per i loro due alleati storici, Israele e Arabia Saudita.
Quali sarebbero invece i vantaggi diretti per gli Stati Uniti?
La caduta di Assad farebbe uscire la Russia dal Medio Oriente, in quanto Mosca perderebbe il suo unico riferimento forte nella regione, mentre tutti gli altri Paesi arabi e la Turchia hanno ormai un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Washington “catturerebbe” così un’ulteriore pedina nel’”americanizzazione” del Medio Oriente. Cacciando Mosca dalla Siria, riuscirebbe a fare sì che la Russia sia ridimensionata fino a diventare una potenza regionale, anziché una superpotenza globale. Come valore aggiunto si rallenterebbe l’influenza e la penetrazione cinese in Medio Oriente.
A quali scenari ci troveremmo di fronte in caso di una guerra?
Le opzioni possibili sarebbero due. La prima è quella di un intervento punitivo realizzato esclusivamente attraverso l’utilizzo di missili. La seconda ipotesi è una campagna prolungata che porterebbe necessariamente a un cambio di regime. Se ci si limiterà a un lancio di missili da navi o sommergibili, gli unici ad avere questi armamenti sono gli Stati Uniti. Si avrebbe quindi un’alleanza multipolare, ma per motivi meramente tecnici a “tirare il grilletto” sarebbe soltanto Washington.
Il premier Letta ha dichiarato che senza un’egida dell’Onu l’Italia non fornirà le sue basi aeree. Quale sarebbe l’importanza di queste basi in un’eventuale guerra contro Assad?
Nel caso di una campagna prolungata entrerebbero in gioco anche delle operazioni di aerei. Occorrerebbero dunque basi che siano le più vicine possibili al teatro dell’operazione. Una base più vicina vuol dire tre cose: tempi più veloci di arrivo sull’obiettivo, meno benzina nel serbatoio e quindi più bombe, minore stress per gli equipaggi. La Siria è oggettivamente più lontana della Libia dalle basi occidentali. Qualsiasi base più vicina rappresenta uno straordinario valore aggiunto, e on questo caso le basi disponibili più vicine sono quelle di Grecia, Italia e Akrotiri sull’isola di Cipro.
Quale sarebbe l’effetto domino provocato da un intervento Usa? Russia e Cina interverrebbero a loro volta?
Fughiamo subito un dubbio, la guerra mondiale non scoppierà. Non è neanche lontanamente ipotizzabile che per ritorsione gli alleati di Assad lancino i missili sugli Stati Uniti. E’ molto più realistica l’ipotesi che nel momento in cui il presidente siriano comprendesse di essere spacciato, potrebbe decidere di sparigliare le carte e di lanciare i missili a sua disposizione contro Israele. Ciò porterebbe all’intervento di Israele, aprendo un vaso di Pandora che difficilmente potrebbe richiudersi.
Assad ha dichiarato che Al Qaeda potrebbe impadronirsi delle armi chimiche siriane per poi usarle contro l’Occidente. E’ una minaccia per spaventare l’Europa?
Tutto dipende dal controllo che Assad ha dei suoi depositi di armi chimiche. E’ però un dato di fatto che da molti anni Al Qaeda sta cercando di impossessarsi di armi di distruzione di massa per impiegarle contro l’Occidente. Lo ha dichiarato la stessa organizzazione terroristica in tempi non sospetti, e quindi quanto afferma Assad è del tutto veritiero.
(Pietro Vernizzi)