Il piano proposto dai russi per la distruzione delle armi chimiche della Siria di Assad non è dovuto al lavoro tra Putin e Obama al G20 di San Pietroburgo (come si crede), bensì a una palla presa al balzo dai consiglieri di Lavrov, il ministro degli Esteri russo. Questa palla è stata lanciata quasi per gioco dal responsabile Esteri degli Usa, John Kerry. L’entourage di quest’ultimo conferma infatti che durante la sua conferenza stampa egli lanciò, quasi in modo retorico, l’idea che l’attacco contro Assad potesse essere fermato se questi avrebbe eliminato le sue armi chimiche (ma sapendo che era impossibile). I russi ci si sono buttati e da una boutade nasce una complicazione per il “fronte Occidentale”. E soprattutto Mosca porta a casa dei risultati importanti. Vediamo quali. 



Primo di tutti, la diplomazia ritrova una iniziativa che fin qui era data per abbandonata: la Russia infatti torna a imporsi come interlocutore importante in quest’area dopo che oramai le decisioni erano prese quasi estromettendola e includendo invece attori che lei considera secondari come Turchia e Francia. Secondo risultato, l’alleato Assad riesce a restare in sella e a ritrovarsi nuovamente accettato sul piano diplomatico: è con lui che Onu, Usa, Francia, Russia e Gran Bretagna ritornano a negoziare, ufficialmente. Fin qui infatti con Assad non parlava praticamente più nessuno, trattandolo quasi come un leader già decaduto.



Questi primi risultati importanti di Mosca hanno però delle ragioni più profonde e di diversa natura: energetica (certo), militare e di sicurezza nazionale. 

Vediamo l’energia. Già si è parlato del “North Dome” nel Golfo Persico, questo enorme giacimento di gas che si devono dividere Qatar e Iran. I russi hanno fatto un patto di ferro con Teheran per cercare di contrastare i regni sunniti della Penisola araba (vedremo dopo le ragioni dell’opposizione ai sunniti da parte del Cremlino), così come i tedeschi sono riforniti in gas da Gazprom grazie al gasdotto North Stream (ricordiamo l’ex-cancelliere Schröder che si era ritrovato a capo del Consorzio di controllo del gasdotto) e gli italiani di Eni sono partner importanti proprio di Gazprom: è evidente perché sia Angela Merkel che l’Italia tutta si oppongano agli attacchi contro Assad, esattamente come la Russia di Putin (e in Italia si continuano a dare versioni sorprendenti secondo le quali gli attacchi con gas del 21 agosto scorso sarebbero opera degli stessi ribelli siriani, dovute a delle maldestre manipolazioni). I russi oltretutto sono i fornitori stessi delle armi chimiche siriane (quando erano ancora Urss) e quindi sanno benissimo di quali e di quante armi si tratta.



Ma il niet dei russi viene da lontano e soprattutto si basa su quello che viene considerato un errore: il bombardamento della Libia grazie alla non opposizione della Russia in Consiglio di Sicurezza nel 2011. Due anni dopo i russi vogliono mostrare la loro importanza, il loro ruolo.

Non vogliono più assistere alla sparizione di un leader come Gheddafi che comunque era in buoni rapporti con loro, sostituito da gruppi che invece non hanno rapporti privilegiati con Mosca. E le ragioni non sono neanche legate alla base marina russa di Tartus (in realtà è solo uno scalo logistico e non certo una base di armamento permanente),  così come non si tratta di business di armi vendute al governo siriano (nel 2011 gli ordini effettuati dalla Siria rappresentavano solo il 5 per cento della produzione di materiale bellico della Federazione russa). 

Da  anni i russi non vendono più ai siriani armi pesanti come aerei Mig o missili vettori di diversa gittata, armi cioè capaci di colpire Israele, perché non vogliono dare ad Assad la possibilità di modificare gli equilibri regionali (e infatti il Cremlino non ha reagito ai raid aerei che Israele ha già effettuato sul territorio siriano). I Russi amano l’”ordine” ed è anche per questo motivo che vogliono evitare la caduta di Assad: non sanno quello che si avrà dopo di lui e se avranno un ruolo importante dopo una tale successione.

C’è poi una motivazione di ordine interno alla Russia che viene troppo spesso dimenticata. I russi si oppongono praticamente a qualunque elemento di rinforzo di movimenti sunniti in Vicino e Medio Oriente perché questo rinforzerebbe le popolazioni del Caucaso (in maggioranza Sunnite anche loro). La guerra con la Cecenia tace, ma non è certo un dossier chiuso e dicasi la medesima cosa per Daghestan, Ossezia, Inguscezia, ecc. In effetti la Russia combatte una guerra importante nel Caucaso e cioè quella per impedire una penetrazione di indipendentismo veicolato da movimenti religiosi islamici nel proprio territorio. 

Da qui l’atteggiamento di Mosca in Medio Oriente molto determinato: quello cioè di fare una sorta di versione russa del roll back dell’americano Dulles degli anni 50. Dopo gli errori commessi sul dossier libico nel 2011 e la perdita di ruolo sullo scacchiere regionale, i russi hanno deciso di imporsi nuovamente: 1) per contrastare i concorrenti energetici pericolosi verso l’Europa, 2) per far vedere ai propri partner/alleati che sono con il “socio” giusto, 3) per impedire il rinforzarsi di movimenti islamici sunniti internazionali, pericolosi all’interno delle loro stesse frontiere. 

È evidente quanto questa ex-potenza planetaria giochi in Medio Oriente una carta importante per cercare di ritrovare almeno una parte del lustro di cinquant’anni fa. Oggi non può farlo militarmente (per quanto stia lanciando la sua modernizzazione, la potenza militare russa resta ancora vetusta e mal tenuta) ma indubbiamente lo fa con tutti i mezzi: sia politicamente che economicamente.

La Siria sembra essere la linea di partizione della acque: dovremo solo aspettare per capire da quale parte “cadrà” il Cremlino.